Il campo di Zaatari

FacebookTwitterLinkedInWhatsAppEmail

Siria, arrivi nel campo profughi di ZaatariFino alla metà di luglio, c’era solo un’estensione piatta e brulla di deserto pietroso. Oggi al suo posto è sorta un’estesa e brulicante tendopoli, piena di attività, di movimento e di vita. E’ il campo di rifugiati di Zaatari, il più grande di tutta la regione, in cui sono ospitati circa 50,000 siriani. Nella settimana prima della nostra visita sono stati registrati circa 1,500 nuovi arrivi ogni giorno. Le famiglie di rifugiati qui hanno diritto ad una tenda, ad alcuni materassi e coperte, a qualche utensile da cucina, e a delle distribuzioni regolari di pane e di cibo. Le cucine, i bagni, e le doccie sono in comune. Ci sono alcune scuole e tre ospedali da campo. Le condizioni di vita sono dure ma almeno la sopravvivenza è assicurata.

Sullo stradone principale si accalca a tutte le ore del giorno una folla variegata di uomini, donne e bambini; le poche macchine ed i camion delle organizzazioni umanitarie avanzano tra la gente a passo d’uomo. Tutti i servizi del campo sono concentrati lungo questo asse: gli ambulatori pubblici, gli ospedali, il piccolo mercato e i capannoni per la distribuzione del cibo. Ci sono tanti piccoli negozietti messi in piedi e gestiti dagli stessi rifugiati: bancarelle di frutta e verdura, venditori di cianfrusaglie, panettieri, calzolai. Oltre ai siriani si vede passare di tanto in tanto qualche operatore umanitario e i rappresentanti delle autorità giordane.

Basta allontanarsi per trenta metri dalla strada, a destra o a sinistra, e l’atmosfera cambia repentinamente. Penetriamo nel cuore del campo: file su file di tende bianche, dai contorni arrotondati, tutte uguali, a perdita d’occhio. Ci muoviamo in un piccolo drappello: due intervistatori, un fotografo, e il nostro accompagnatore siriano. Un sole d’inverno, basso e minuto, brilla intenso nel cielo cristallino; una brezza fresca accarezza leggermente la terra nuda. L’orizzonte cromatico si riduce a tre colori: il bianco dei teloni, il beige chiaro della polvere e del suolo, l’azzurro dei loghi delle Nazioni Unite. Niente folla né trambusto: solo qualche giovane sfaccendato a passeggio, un gruppetto di bambini impegnati a rincorrersi e giocare, o una coppia di anziani sdraiata fuori dalla tenda a scaldarsi al sole; c’è chi riporta a casa un bidone d’acqua, chi coperte e materassi, chi una bombola di gas. Qui siamo in territorio siriano: giordani o stranieri non se ne vedono.

Da una fila di tende all’altra, percorriamo lentamente l’intera superficie del campo. A volte sono i siriani stessi ad avvicinarsi incuriositi e ad attaccarci bottone. Altre volte siamo noi a fermarci di fronte ad un gruppo di persone per fargli qualche domanda. Quando il fotografo vede un soggetto interessante, ci avviciniamo per scoprire chi è e da dove viene, e per chiedere il permesso di fotografarlo. Qualche persona accetta; altri rifiutano; in ogni caso ringraziamo gentilmente e riprendiamo il nostro cammino. Se una famiglia è disposta a raccontare la sua storia nei dettagli, uno di noi si lascia invitare nella sua tenda per realizzare una vera e propria intervista. Gli altri nel frattempo continuano lentamente la strana esplorazione.

Alcuni rifugiati sono nel campo da mesi; altri sono arrivati l’altro ieri. Famiglie dello stesso villaggio tendono a scappare insieme dagli stessi bombardamenti e ad installarsi quindi nello stesso settore del campo. Ci sono famiglie allargate, con fratelli, sorelle, zii, e i loro bambini: hanno messo ogni nucleo familiare in una tenda separata, e disposto tutte le tende una accanto all’altra. Altri sono venuti da soli. Ci sono donne senza marito, bambini senza padre: alcuni di questi uomini sono morti, altri sono rimasti in Siria a combattere.

Ogni settore del campo ha un suo nome e comincia ad acquisire una sua identità. Le prime zone occupate in estate sono le più dense e diversificate, perché ognuno ha personalizzato il proprio spazio abitativo: molti si sono procurati una seconda tenda, ci hanno costruito a fianco una baracchetta di lamiera, o si sono creati un minuscolo cortile. Alcuni si sono persino installati l’elettricità in tenda. Le zone nuove sono più spaziose ed omogenee: tutti hanno la stessa identica tenda, nessuno ha avuto il tempo di sistemarsi a dovere.

 

In fondo al campo, una distesa interminabile di prefabbricati bianchi attende i nuovi arrivi delle prossime settimane. E’ una visione sorprendente, e quasi inquietante. Solo fino al mese scorso questo era puro deserto. Oggi si trasforma in un settore del campo. Domani sarà un quartiere. Speriamo che la guerra finisca prima che diventi una città.

 

(racconto di F.D. Del 06/01/2013)

Ti potrebbe interessare

Abbiamo lasciato il campo cantando
Il Campo Caritas di Klina
Giorgia e una Petra da salvare
Chi sono le nuove badanti
Una bevuta al volo