Lilith, essere rifugiati (in attesa) a Istanbul

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Lilith riattacca il telefonino e sorride. Le altre nove donne attorno le chiedono qualcosa in arabo che non capisco. Lei risponde “na’am”, “sì”, e tutte si alzano per abbracciarla. Mi  occorrono alcuni secondi per chiedere all’interprete cosa stia succedendo. Lilith è appena stata chiamata per l’intervista nell’agenzia Onu per i rifugiati (UNHCR) a Istanbul, un primo passo per iniziare il suo programma di reinsediamento in Australia.

Lilith aspetta questa opportunità da anni. Sei anni fa oltreppassando a piedi di notte, in un tratto non pattugliato, il confine Irakeno non aveva mai pensato che il suo vero viaggio doveva ancora iniziare. Il suo progetto era di raggiungere il fratello in Norvegia. A Oslo con la madre anziana e due figli comincia a lavorare ma il suo status di rifugiata non viene risconosciuto e deve ritornare nel Paese di provenienza: Turchia. In Turchia vive in un limbo: esclusa dall’assistenza di base si finanzia vendendo presine, maglioni e lavori ai ferri. I bambini che non possono andare in una scuola pubblica nè tantomeno permettesi una privata vengono accolti dai Salesiani. Nel suo Paese Lilith ha venduto la casa e la macchina prima di scappare per la guerra. Tre mesi fa ha iniziato il programma del gruppo di solidarietà e di sostegno per donne organizzato da una Ong, la Caritas di Istanbul, e da allora l’attesa le è meno pesante.

”Per alcune ore alla settimana posso finalmente rilassarmi, prendere una tazza di tè e chiacchierare, posso uscire di casa e imparare qualcosa. Qui trovo delle persone con cui discutere dei problemi di rifugiata a Istanbul e condividere alcune soluzioni. Inutile che lo dica, ma qui scopro di non essere sola” dice Sena, anche lei parte del gruppo. In contrasto con le sue parole Sena si presenta come una madre calma e serena negli incontri settimanali.

I due bambini stanno giocando con i suoi braccialetti attorno alla sedia nella sala riunioni della Caritas. Sena indossa oggi un pullover rosso con un velo intonato. Come tutte le signore siriane o irachene del gruppo, prende la riunione come un’occasione per indossare il vestito buono. Di una modesta eleganza e delicatamente truccata Sena sembra a proprio agio come se fosse una turista a Istanbul. Ma non è così: non sarebbe venuta in Turchia se non vi fosse stata costretta dalle persecuzioni in Siria.

“Nonostante la bellezza di Istanbul, gironzolare o visitare una moschea è un lusso che non ho mai potuto permettermi: non ho mai la mente libera dal pensiero delle difficoltà economiche e delle necessità dei miei bambini, eccetto una volta la settimana, quando appunto vengo a questo gruppo”. Qui lei è tranquilla. Può separarsi per un po’ di tempo dai ragazzini che giocano sotto la custodia dei volontari.

Per il fatto di essere un crocevia tra Europa, Medio Oriente, Asia e Africa, milioni di persone cercano lavoro o attraversano la Turchia per ragioni economiche o per fuggire a persecuzioni e la guerra nei loro Paesi. Gli esuli in attesa del riconoscimento dell’asilo politico sono costretti a una vita di estrema povertà, perché non possono lavorare e nemmeno accedere ai servizi sociali di base. L’alto commissariato ONU per i rifugiati riporta che nel 2011 8.000 persone hanno fatto richiesta di asilo politico in Turchia, provenienti specialmente da Afghanistan, Iran, Iraq e Somalia. Nell’attesa che il loro status venga accertato molti passano mesi in prigione. Più volte il governo turco non ha esitato a deportare molti immigrati provenienti dalle regioni di guerra nel loro Paese. Nel 2008 cinque immigrati sono morti costretti dalla polizia ad attraversare il Tigri in piena. Inoltre, come per Lilith, anche quando l’UNHCR ha riconosciuto un immigrato come rifugiato, i tempi per essere inseriti in un programma di reinsediamento sono incerti, e a volte possono durare fino a due o tre anni. Così in questo tempo dove a un rifugiato non è dato nè di lavorare nè di che vivere intervengono molte associazioni non governative.

In questi giorni Bettina e Chiara non hanno nemmeno il tempo di guardare fuori dalla finestra dell’ufficio: sono le organizzatrici del progetto per le donne rifugiate. È arrivata l’approvazione di un nuovo progetto sostenuto dalla Caritas spagnola e francese, per tutto il 2012. Devono organizzare un incontro con lo psicologo di “Medici senza frontiere”, programmare un corso per la preparazione di volontari e selezionare un nuovo gruppo di dieci donne per i prossimi 6 mesi. “Trovarsi improvvisamente fuori dal proprio ambiente sociale e familiare, è un salto enorme per chiunque, ma può diventare insopportabile se non si conosce la Turchia; ti trovi escluso dal lavoro, tutta la tua vita dipende dal rilascio di un visto e hai bambini e parenti anziani a tuo carico.”-dice Chiara.

“Dato che le donne hanno più responsabilità, ma meno opportunità di ottenere informazioni e di beneficiare di “connessioni” sociali, sono diventate il soggetto su cui si concentrano i nostri sforzi”. Chiara ammette che “40 donne in un anno su 8.000 richiedenti asilo sono una goccia nel mare, ma – continua- il gruppo donne è anche una finestra per fare crescere il numero dei volontari che vengono a conoscienza del problema e, a loro volta, possono sensibilizzare altra gente”. I promotori del progetto sono anche consapevoli della limite di tempo – solo sei mesi per ciascun gruppo. “Non possiamo dare a rifugiati e migranti un manuale di istruzioni per la vita perché nessuno lo possiede; cerchiamo solo di offrire la possibilità di imparare qualcosa di utile per far diventare le donne più autonome: Le donne si aiutano l’un l’altra insegnandosi piccoli lavori manuali: ceramica, decorazioni sul legno, taglio e cucito, maglia… competenze che possono dare qualche supporto economico in futuro. Ma ci sforziamo soprattutto perchè le partecipanti leghino tra loro e trovino fiducia in se stesse, a Istanbul come in qualsiasi altro Paese andranno a vivere quando arriverà loro il permesso per essere reinserite in un nuovo Paese”.

Nicola Brocca

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