Le ombre e le note di Andrea Dei Castaldi
È da poco uscito “Anime brevi” il nuovo libro dello scrittore asolano Andrea Dei Castaldi. Il suo terzo romanzo dopo “Finistère” (2013) e “La cesura” (2015), tutti pubblicati da Barta Edizioni.
“Anime Brevi” è stato scritto a Buenos Aires e per certi versi è un “approdo”o, forse, la premessa per una “ripartenza”. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Anime brevi è il tuo terzo romanzo, è l’ultimo di una “trilogia della colpa”?
Forse mi piace di più vederla come una “trilogia del perdono”, ora che l’ho conclusa. È vero, in ogni caso, che questi miei primi tre romanzi si muovono tutti intorno all’idea della colpa, osservandola da distanze differenti, in una sorta di percorso catartico che porta da questa a un qualche genere di assoluzione. Il perdono era senza dubbio la materia centrale del mio primo romanzo, Finistère, inteso come l’unica via necessaria per ricomporre una vita andata in frantumi. Nel seguente, La cesura, è l’atto colpevole in sé a essere al centro dei riflettori, colto nel momento stesso in cui lo si compie, quando si è ancora ben lontani da una qualsiasi consapevolezza. Credo che Anime brevi si ponga invece molte domande sulla necessità o meno di un’espiazione, considerandola come un ulteriore passo, forse inevitabile, verso il perdono. E a volte perdonare sé stessi è l’atto di coraggio più difficile che ci si possa imporre.
Perché il titolo “Anime brevi”?
Questo titolo mi si è palesato d’un tratto a romanzo concluso, dopo molti mesi in cui mi sembrava di brancolare nel buio. E queste due parole, che accostate tra loro sembravano quasi liberare scintille, mi sono suonate subito bene. L’effetto è quasi quello di un ossimoro, forse perché siamo portati ad associare la parola anima a una qualche idea di eternità. Chi sono le Anime brevi? Chi sente di aver perduto irrimediabilmente una parte preziosa di sé, forse la migliore, e di sopravviverle. Sono persone che convivono costantemente con questa mancanza, che non riescono a sottrarsi alla forza di attrazione di un’ombra scura gettata dal loro passato che ha l’aspetto di un buco nero, persone che nello specchio vedono una versione incompiuta di sé, e che ad ogni passo si accompagnano a ciò che sarebbero potute essere.
I tuoi libri sembrano strutturati come partiture. Anche in questo “Anime brevi” sembra a volte di avvertire il gesto della mano che dirige l’orchestra e i violini che entrano, in certe scene, i tamburi, la sezione dei fiati e un piano melanconico sul fondo. Qualcosa di classico.
Mi fa piacere che sia stata colta la musicalità della mia scrittura, ma anche l’attenzione che riservo a quello che potremmo chiamare “il quadro generale”. La mia è una costante ricerca di equilibrio, anche nella composizione. D’altra parte in Anime brevi la musica è un elemento fondamentale e funzionale alla narrazione stessa, si potrebbe addirittura dire che è un personaggio a sé stante. C’è un intero capitolo del romanzo che ho cercato di modulare sui toni, sui movimenti e i colori del Tristano e Isotta di Wagner – c’è un motivo preciso per questa scelta, lo lascio scoprire a chi lo leggerà –, in un tentativo di trasformare in parole una materia tanto imprendibile, e la sua natura puramente emotiva.
Una colonna sonora di Anime brevi come sarebbe, in che genere musicale ricadrebbe. Ascolti musica quando scrivi? Sai suonare qualche strumento?
Di Anime brevi hai colto bene la natura classica, anche se, in un’eventuale colonna sonora, più che il già citato Wagner ci vedrei meglio composizioni meno ingombranti, come le Gymnopédies di Satie o il Quartetto per archi di Ravel, oppure qualcosa di più moderno e minimale, come Philip Glass o Steve Reich. Ascolto spesso musica durante le mie sessioni di scrittura, tanto che poi tendo ad associare le cose che ho scritto con ciò che ascoltavo in quel periodo. Se penso a Finistère, per esempio, nella mia testa sento il primo Miles Davis, o roba decisamente più lisergica che mi appassionava a quel tempo, come i Grateful Dead. Credo che un qualche genere di ricaduta sulla mia scrittura ci sia stata, in questo senso, ci sia tuttora. Recentemente, mentre scrivo, torno spesso a Still Way di Satoshi Ashikawa, un album splendidamente meditativo, musica piena di spazi vuoti che permettono all’immaginazione di muoversi in totale libertà. Ma al di là della scrittura, come ascoltatore ho un approccio decisamente onnivoro. Sono pure un musicista mancato: ho studiato chitarra classica da adolescente, per un po’, ma mi è mancata la costanza e l’impegno per farlo seriamente in seguito.
Tu abiti ad Asolo, un paese dove c’è un’osteria che fa corsi di recupero per astemi. Sei veneto, e si sa che i veneti bevono solo in due momenti della giornata (durante i pasti e fuori pasto), eppure il vino o il bere non hanno un grande spazio nei tuoi libri, e neppure la gastronomia, cui spesso i romanzi oggi danno ampio spazio. È per fare la voce fuori dal coro o è la tua voce, senza desideri di non stare nel grande flusso, nel main stream?
Non è del tutto vero: nella Cesura, ad esempio, sono molte le scene che si svolgono in osteria, o comunque in occasioni conviviali che necessitano di un bicchiere in mano. Forse quello che manca è l’eccesso, l’ubriachezza, un immaginario Bukowskiano che senza dubbio non mi appartiene. Non fraintendermi, sono un assiduo frequentatore delle osterie del paese, ma per me un buon bicchiere di rosso significa soprattutto una chiacchiera altrettanto buona, la socialità che ne nasce, è questo il tipo di dimensione che mi interessa. D’altra parte capita spesso che vi convivano le materie più celesti e le più grette, delicatezze che non ti aspetti, e poi subito eccoti la grana più grossa. Un serbatoio inesauribile per chiunque voglia raccontare delle storie, un autentico tesoro.
Ti sembra di aver mutato stile, linguaggio nel corso della tua vita di scrittore?
Sicuramente c’è stata un’evoluzione nella mia scrittura in questi anni, c’è senz’altro più consapevolezza, rispetto agli esordi, più disinvoltura nell’utilizzare gli strumenti che mi vengono buoni al momento giusto. Quello che non ho mai smesso di fare, in ogni caso, è pormi il problema della scrittura. Ogni romanzo che ho scritto finora ha un proprio stile e una propria voce, come ha un preciso punto di vista scelto per raccontare quella storia e quella soltanto, la giusta distanza per osservarla e muovercisi attraverso. Ad esempio Anime brevi ha una sua postura quasi ottocentesca, a partire dal racconto in terza persona e dall’utilizzo del passato remoto, fino a una certa coralità diffusa. Nonostante mi piaccia considerarla come un piccolo esercizio di inattualità, è stata una scelta quasi obbligata quando ho cominciato a mettere a fuoco l’idea per questa storia, a percepire la necessità di raccontarla, e a chiedermi il come, assieme al cosa, come sempre faccio.
Andrea Dei Castaldi
In qualche modo, sei uno scrittore classico, e forse sono classici pure i tuoi modelli di riferimento. A parte la buona tavola, pure tutto il mondo turborapido di Internet è assente dai tuoi libri, o quasi.
Di nuovo: una scelta?
Parlando di classici, e tornando alle Anime brevi, da una parte potrei considerare questo mio ultimo romanzo come un omaggio ai grandi narratori dell’Ottocento, dall’altra scriverlo è stato forse anche un modo per distaccarmi da quei modelli, per andare oltre. Rispetto alla mia riluttanza di maneggiare una materia arroventata e urgente, come il ruolo della tecnologia nella nostra vita, credo che nasca in maniera più o meno inconsapevole ogni qualvolta mi trovo a elaborare una prima idea di trama. Spesso le mie storie nascono da un mistero, da una tessera mancante del mosaico, da una lacuna in qualche modo da colmare, se non proprio con la verità, per lo meno con l’immaginazione. In ogni caso si tratta quasi sempre di dare risposta a una sorta di enigma. Credo che la tecnologia oggi, e in particolare la rete che ci fornisce ogni genere di informazione in tempo reale, ci abbia privati del privilegio di non sapere, della vertigine dell’ignoto. È questo senso di mistero una delle forze che mette in moto la mia scrittura, spesso le mie storie si svolgono in un passato, seppure prossimo, in cui la tecnologia viene relegata in un angolo se non sacrificata sull’altare dell’immaginazione. Non escludo, però, di affrontare questo mio fantasma in futuro. L’idea di raccontare il presente con tutte le sue contraddizioni, senza trucchi e senza inganni, è una bella sfida.
Quanto della tua vita personale entra consapevolmente nei tuoi romanzi? Fai come il Jean-Paul Belmondo di Come si distrugge la reputazione del più grande agente segreto del mondo (traduzione semiletterale del titolo originale: Le magnifique) oppure inizi e poi nasce tutto da sé, senza pilota?
Più che senza pilota direi col pilota automatico. Mi piace moltissimo procedere un poco alla cieca, partire da un’idea forte – che evochi quel senso di mistero di cui si parlava poco fa – e vedere dove mi porta, gettare qua e là indizi e dettagli senza saperne nemmeno il perché, per poi scoprirlo a mano a mano che la storia prende forma. Si tratta solo di riconoscere la strada buona una volta imboccata, è la frequenza giusta su cui sintonizzarsi di cui parlava Lou Reed quando gli chiedevano come faceva a scrivere le sue canzoni. “Da qualche parte ci sono già”, diceva, “basta riuscire a sentirle”. Credo che la sorpresa che spesso mi coglie di fronte a queste piccole grandi rivelazioni sia la stessa del lettore, poi. Per quanto riguarda la vita personale, è inevitabile che le mie esperienze diventino parte integrante dei miei romanzi, in qualche modo trasfigurate, però, tanto da essere ben poco riconoscibili, spesso addirittura da me che le ho vissute e che poi ne ho scritto. E forse è meglio così. Anche perché, per dirla con Milosz: quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è finita.
Alessandro Valdera