Angola, 11 anni dopo, 11 anni ora

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Il 4 aprile si è celebrato in Angola l’undicesimo anniversario del Giorno della Pace e della Riconciliazione, per ricordare l’accordo di pace che nel 2002 mise fine a ventisette anni di guerra civile.

E’ sempre sorprendente costatare come i popoli che hanno vissuto la guerra e i suoi postumi più dolorosi possano essere capaci di rigenerarsi, a distanza di pochi anni, attraverso l’ingenua, irriverente e potentissima energia delle sue forze migliori: i ragazzi, i giovani, gli adolescenti.

Sono i giovani che osservo dalla finestra di un albergo a Huambo, nella provincia omonima dell’Angola centrale, e che giocano con un pallone vecchio e sgonfio, forse bucato e di una marca cinese improbabile, ad un gioco che a me ricorda in qualche modo quello che in Italia si chiama “palla avvelenata”.

Qualcuno ha dei pantaloni sfilacciati, qualcuno una maglietta di una squadra europea di calcio di 25 anni fa, con lo sponsor di 25 anni fa, chissà come l’ha recuperata. Un ragazzo torna da scuola proprio in quell’istante, e poggia una borsa sotto l’albero in tutta fretta.  Ha gli occhiali, un cappellino, e ha un cellulare con cui forse risponde alla madre che lo chiama per sapere dove si trova. Come da noi, penso, come in una qualsiasi città di provincia italiana. Ragazziche fin da quando sono a scuola – se ci vanno – sognano solo il momento di distrarsi con gli amici, e ridere per una battuta facile, per un’espressione del viso, una mimica improbabile del proprio compagno di giochi. Per un qualsiasi pretesto della giornata. Spensierata. Normale. Uguale a tante altre, ma bella proprio per questo.Scansione del tempo prevedibile, percorribile senza incidenti, senza troppe sorprese.

A poche decine di metri c’è un edificio chiamato “Nueva York Social”, distrutto e bruciato durante la guerra civile che si èabbattuta sul paese tra il il 1975 e il 2002. Huambo era unodei bersagli principali, perché per molto tempo roccaforte del partito dell’UNITA, all’opposizione ieri come oggi, ma oggi solo in parlamento.

La palazzina, di due piani, è ancora sventrata e mostra i segni di un attacco prima aereo, poi da terra, con ancora visibilissimi i buchi delle mitraglie. Sgomenta immaginare come in un modo o nell’altro volessero farla finita non solo con l’edificio e con chi lo frequentava, ma in un certo senso con il significato stesso ch’essorappresentava.

“Lo hanno colpito perché era frequentato da cubani, i cubani che aiutavano il governo – mi racconta il portiere dell’hotel -, e che mandavano armi, spie e soldati dall’altra parte dell’oceano. Si riunivano nel club che era una sorta di quartiere generale. La sala centrale era piena di tessuti, tende, tappeti. In pochi secondi il fuoco se ladivorò.

Ci sono ragazzi che conoscono molto bene in quale inferno fossero precipitatiil loro paese e le loro famiglie,durante i lunghi anni di una guerra che ha fatto 1 milione di morti e oltre 2 milioni di sfollati, sventrando scuole, strade, ospedali, resettando interi villaggi e comunità. Ragazze e ragazzi che hanno ancora vivo non solo il racconto, ma le immagini di quelle distruzioni quasi quotidiane, costanti, impietose.

Ma ci sono anche bambini e giovani che non sanno, non ricordano, e se non ricordano è perché magari hanno 11 anni, e quando sono nati era già stato firmato l’accordo di pace  che mise fine agli scempi e alla devastazione.

Decido allora di immaginare chei ragazzi che giocano a palla avvelenata abbiano tutti ma proprio tutti 11 anni, e che non abbiano cicatrici,  non sognino le bombe quando vanno a dormire, non disegnino corpi  umani ed animali feriti quando vanno a scuola.E abbiano un vago o nessun ricordo delle strade e dei campi pieni di mine, a poche centinaia di metri dalle case in cui sono cresciuti.

Tutti 11 anni, sì, con la stessa freschezza, la stessa  forma di incosciente ottimismo sbarazzino, e che non fanno fatica ad immaginarsi una vita in cui un loro interesse diventi un giorno un lavoro, una professione, e non necessariamente quello dei propri genitori, ammesso che questi lavorino ancora.Undicenni che tra qualche anno non soffriranno a ricordare la propria infanzia, i giochi, i lunghi pomeriggi in compagnia, la musica, ed anche a prefigurarsi – senza troppi timori o punti interrogativi – l’infanzia dei loro futuri figli.

A non sapere da dove vengono, e dove sono nati, si potrebbe dire che sono perfettamente in grado di azzerare il passato, questi undicenni, e ripartire come se niente fosse mai accaduto.

Mentre le partite di “palla avvelenata” volgono al termine, delle signore si radunano ai bordi della strada, strappando con le mani le erbacce cresciute a dismisura con la stagione delle piogge. Devono ripulire la terra per piantarci dei fiori, perché qualcuno proprio quella mattina ha offerto 4 soldi per finire il lavoro in poche ore. Sono accorse a decine, le donne, pur di racimolare qualcosa fino a sera, e sembrano conoscersi molto bene perché se la ridono e se la raccontano come vecchie comari di paese.

Luca Solimeo

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