Cara Fabbrica/ La giusta punizione

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Ero arrivato in ditta 4 anni prima e gli affari andavano a gonfie vele; era il boom dei pannelli solari in quegli anni e il mio capo, che aveva agli inizi una piccola ditta con 5 operai, si era allargato e guadagnava davvero benone. Lavoravamo dalle 8 alle 12 ore al giorno. Io non ero in regola se non per poche ore e il resto, lo straordinario e quelle restanti mi erano pagate fuoribusta. Ci trattava sempre bene el paròn: se chiedevamo un anticipo sulla paga o se domandavamo di esser remunerati a fine giornata o a fine settimana, non faceva storie e sborsava cash quello che ci serviva. Io stavo sempre con Juri, un ragazzo polacco che era arrivato in Italia per studiare, si era laureato in scienze politiche, ma per vivere e pagarsi l’affitto doveva lavorare: aveva provato prima come cameriere in un pub, ma le cose non erano andate bene per via di una sua giovane collega verso la quale il capo era stato un po’ troppo esuberante e Juri ne aveva preso le difese, ricevendo come compenso il licenziamento. Qui con noi si trovava bene e diceva che eravamo buoni amici. Uscivamo anche nel dopolavoro per berci una birra o andare qualche domenica a pescare; ci portavamo tutto l’occorrente per prepararci una grigliata sull’argine del Brenta: mattinate di cui rammento la luce fioca all’orizzonte, perché si partiva all’alba e poi certe insolazioni sotto il calore estivo già verso le 11 e un caldo che ci costringeva a rinchiuderci all’ombra in qualche trattoria o bar a berci una birra per rinfrescarci un po’.

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Juri ed io avevamo gli stessi orari e, dato che abitavamo poco lontano in paese, passavo a prenderlo al mattino e poi alla sera lo riportavo a casa. Lui si stava facendo la patente e non aveva ancora la macchina; approfittavamo di quei momenti per scherzare e ridere un po’ di un altro collega di cui tutti sapevano le storie personali fuorché lui. La moglie se la faceva almeno con metà del paese e un giorno aveva fatto capire anche a me che le piacevo e mi avrebbe dato gioco facile con lei. Ma per rispetto del mio collega avevo rinunciato. E scherzammo su di lei e sulle sue forme abbondanti e generose che in molti sapevano apprezzare.

Un giorno il padrone mi mandò a installare in zona industriale dei pannelli assieme a Juri, ad Antonio, il collega che abitava a Cadoneghe e Brasocurto – un tipo che non aveva voglia di far nulla e ci toccava di lavorare anche per lui pur di finire i lavori in tempo –. Dovevamo finire il lavoro entro il mercoledì seguente e si era già in ritardo, a meno che non dessimo un’accelerata e facessimo ad oltranza per tutto il giorno senza sosta e per tutte le ore di luce. Io e Juri eravamo d’accordo; l’Antonio si adeguava volentieri agli straordinari, era uno che aveva bisogno di soldi, dato il mutuo che lo attanagliava e il terzo figlio in arrivo.

DAN 331Invece Brasocurto, che era il soprannome di Gianni, non ci sentiva proprio, lo si doveva richiamare sempre e capitava che anche nel bel mezzo del lavoro, che faceva sempre con la sigaretta tra le labbra, nonostante i divieti e i richiami, si fermasse, sedendosi e guardandoci con un’espressione vuota e allampanata che non era certo di superiorità anzi ci pareva un disperato all’ultimo stadio.  Nonostante la sua pigrizia, ci faceva una gran pena e, a volte, lo coprivamo e quando stava arrivando el paron, lo avvisavamo; oppure, se non c’era perché era andato a prendersi le sigarette o ad accendersi l’ultima con la scusa del gabinetto, riferivamo che era andato a recuperare del materiale nell’altro cantiere o nel furgone.

Quel giorno però lo vedevamo strano, non aveva proprio voglia di far nulla: appena arrivato, si mise seduto accendendosi una sigaretta a raccontarci della sera prima e di sua madre che era stata male, della sorella che da tempo non gli parlava più e che lo rimproverava sempre per via del fumo e del resto, che non si lavava, che era sempre in disordine e che non ce la faceva più. Si sfogava con noi e lo ascoltavamo, ma ci davamo da fare e nel frattempo che lui raccontava, scaricavamo il materiale, i pannelli e gli attrezzi per il montaggio e facevamo anche la sua parte di lavoro. A volte me la prendevo con me stesso per la pena che mi faceva e Juri si sfogava con me ed io con lui e ci chiedevamo perché ci dovessimo sfiancare al posto suo: eppure era così inerme e fragile che non ce la sentivamo di dargli addosso. Anche di figura era un tipo spilungone, magro come un fuscello e a volte a montare i pannelli in certe giornate ventose di marzo, scherzavamo e gli dicevamo che doveva assicurarsi con la corda o l’imbragatura per non esser portato via dal vento. Lui sorrideva per qualche secondo e poi tornava ad avere quell’espressione tra il triste e il preoccupato che lo rendeva estraneo ad ogni ambiente e lo sottraeva al presente.

Quel giorno appunto, ricordo bene che era un luglio inoltrato e faceva un caldo terribile a tal punto che non riuscivamo a stare sul tetto del capannone se non in mutande o con dei pantaloncini arrotolati sui fianchi e senza maglia. Non avevamo certo le scarpe antiscivolo e sapevamo che rischiava sia il padrone una multa, in caso di controlli a sorpresa, sia noi di cadere, come era successo l’anno prima al Bellomo che era scivolato dentro il capannone per un malore dopo un colpo di sole. Eravamo ben consapevoli: ma questo lavoro andava finito in tempo e così s’era deciso di correre i rischi. Che dio ce la mandi buona!! Pensavamo dentro di noi prima di cominciare il lavoro.

Brasocurto come noi non aveva protezione né tantomeno il casco anti-infortunio: quel giorno però avevamo capito che rischiava di più perché era più assonnato e lento DAN 332del solito. Ad un certo punto, mentre io e Juri stavamo giù vicino al furgone a prendere i pannelli da caricare sul tetto, mentre Antonio stava sopra il capannone per completare le operazioni e far salire i pezzi da installare, sentimmo un botto spaventoso. Un rumore sordo come di un sacco di sabbia o di cemento e vedemmo un’ombra cadere precipitosamente alla nostra destra. Ci guardammo negli occhi io e Juri, con stupore, fu una frazione di secondo e ci intendemmo subito. Ci precipitammo a vedere: era lì con il capo sfracellato per la caduta che sarà stata di 7/8 metri a poca distanza dal materiale di ferro che si lavorava nella ditta. Un lago di sangue sotto il capo e una posa naturale, come se fosse un bambino dormiente. Senza nemmeno un attimo di esitazione, chiamammo l’ambulanza, ma avevamo capito che non ci sarebbe stato nulla da fare. Antonio era caduto nel tentativo di fermare Brasocurto che, senza avvedersene era inciampato su un contenitore degli attrezzi poco prima abbandonato sul bordo del tetto.

E’ toccato ad Antonio!! Ecco il destino com’è!!: pensai tra me e me, mentre attendevamo l’ambulanza e mi montò una rabbia nei confronti del Brasocurto che non ci vidi più e appena scese dal tetto sempre con gran calma e con quel suo fare dinoccolato e come assente, gli mollai un cazzotto con tutta la forza che avevo. Juri dovette staccarmi se no rischiavo di fargli davvero del gran male. Mi calmai solo dopo un quarto d’ora e perché Juri mi aveva convinto che non c’era nulla da fare e anche a colpirlo non avrei riportato in vita Antonio.

Arrivò poi l’ambulanza: subito i medici confermarono che non potevano far nulla, attesero a tutti i loro controlli e portarono via il corpo di Antonio.

Brasocurto se la cavò con due punti di sutura sul mento e fu pronto a dimenticare l’episodio. Io invece no: dopo quella volta, chiesi al padrone di non mettermi mai più col Brasocurto e di spostarmi piuttosto ai lavori più pesanti, a patto di non averlo mai più davanti  a me. Pare impossibile ma non lo vidi proprio più.

Sembra – ma non son sicuri quelli che me l’hanno riferito – che Brasocurto dopo qualche mese abbia deciso di stare a casa dal lavoro per farsi mantenere dalla sorella e dalla madre. E ora lo vedono per le osterie del paese, sempre col suo sguardo assorto e spento, con la cicca in una mano e nell’altra sempre più di frequente il bicchiere.

Una giusta punizione!! a volte penso tra me e me,  ma non oso dirlo  ad alta voce proprio a nessuno, neppure a Juri che credo già lo intuisca: lo vedo quando ci scambiamo qualche sguardo d’intesa mentre passiamo davanti al cantiere dove l’ombra di Antonio pare salutarci ancora lassù dall’alto del tetto.

Bruna Mozzi, foto Danilo Cazzaro

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