Kosovo in bus, il Paese che (non) c'è

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Attraversare il Kosovo da Nord a Sud in autobus. Ecco il contributo di Giuliana Deidda. Fate come lei: inviate la vostra storia ad anordestdiche@gmail.com

Vivere nei Balcani porta inevitabilmente a interrogarsi sulla questione kosovara. Decido così di raggiungere Tirana partendo da Belgrado e passando attraverso il Kosovo. Viaggio su un bus che attraverserà la Serbia per circa 7 ore e che mi lascerà nella parte serba di Mitrovica.

Arrivo al confine e gli uffici della dogana (costituiti da qualche piccolo container) sono preceduti da filo spinato e ai lati della strada qualche cumulo di terra. Entra sul bus un poliziotto della Eulex che chiede se tutti i passeggeri posseggano un documento di riconoscimento. All’unisono “Sì” esce e proseguiamo il viaggio. Sono in Kosovo.

Mi sarei aspettata dei controlli meno frettolosi dato che di lì a poche settimane si sarebbero svolte le elezioni presidenziali in Serbia ed era accesissimo il dibattito sul diritto di voto delle sue enclavi in territorio kosovaro.

Il viaggio prosegue e da questo punto in poi sventolano bandiere serbe, vedo cartelloni che proclamano l’appartenenza del Kosovo alla Serbia e ai lati della strada tende militari e cumuli di legno e pietre che verranno spostati durante le rivolte per bloccare la strada.

Arrivata a Mitrovica cammino tra le bandiere serbe appese lungo le vie e mi trovo di fronte ad una gigantografia di Putin, cittadino onorario di Zubin Potok e Zvecan, due comuni del Kosovo del nord con una maggioranza di popolazione serba.

Noto subito che le macchine non hanno la targa. Mi spiegano che si tratta di una questione di “convenienza”. Se si attraversa il confine non si vogliono avere problemi e così per viaggiare “più liberamente” tra uno stato e l’altro le targhe vengono smontate. Una sorta di “velocizzazione delle pratiche”.

Cammino per le vie della cittadina, si parla Serbo e si paga in dinari serbi. Ovviamente.

L’Ibar è il fiume che rappresenta il vero confine tra Serbia e Kosovo. Mi siedo a osservare e il risultato è questo: ragazzini che dall’altra parte del fiume mi urlano contro. Perché? Forse per loro sono Serba e, se non lo sono, sto nella parte sbagliata.

Dalla parte kosovara del fiume, una moschea ha l’altoparlante del minareto rivolto verso la parte opposta. Si dice che non sia stato posizionato così per caso.

Attraverso le tende militari che stanno all’inizio del ponte, lascio le scritte che proclamano il Kosovo il cuore della Serbia e arrivo dall’altra parte, controllata dai Carabinieri. Mi guardo indietro. La scritta “Fuck Serbia” mi saluta.

Ho appena attraversato il ponte che divide una città in due stati, considerato uno dei punti più “caldi” d’Europa. Non ho percorso nemmeno 100 metri e la lingua e la moneta sono cambiate. La gente è cambiata, tutto è cambiato.

Un ragazzo mi porta a Pristina con un furgoncino sgangherato che parte grazie alle spinte degli amici. Con 4 euro arrivo nella capitale di uno stato che non si sa se esista e nelle cui strade sventolano più bandiere albanesi e americane che kosovare. Molti scrivono il suo nome con un asterisco quasi a voler dire che sì è uno stato, ricordando però che ci sono notevoli problemi ancora aperti.

Dalla stazione di Pristina prendo un autobus che attraversa l’enclave serba Gračanica e che ha come meta Gjilan. In meno di 10 minuti sono di nuovo in Serbia. Scritte in cirillico, dinari serbi e agenzie di viaggio con mete esclusivamente serbe.

Dopo la visita al monastero, diventato dal 1999 un centro politico per i Serbi del Kosovo, aspetto il bus per Pristina. Il primo autista che passa mi ignora, il secondo si ferma e tutti i passeggeri mi guardano con fare sospetto. Non è normale che qualcuno a Gračanica fermi il bus per Pristina. Chiedo all’autista il prezzo del biglietto e lo faccio ostentando le mie poche conoscenze in lingua albanese. Lui sembra quasi tirare un sospiro di sollievo.

Cosa mi ha lasciato questo viaggio? Prima di tutto tante domande. Il Kosovo è uno stato? Può il suo status dipendere da un sì di grandi potenze? E in tutto ciò, che ruolo ha la cultura kosovara? Che diritti hanno coloro che abitano le enclavi serbe?

Non spiegherò qui la mia posizione, ma ciò che è certo è che ormai negli anni il Kosovo è riuscito a costruire una sua identità dalla quale, che si voglia o no, non si può tornare indietro.

 Giuliana Deidda

Sull’Albania invece leggi il reportage Spiagge e Mazzette

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