Do you speak Japanese?

Do you speak Japanese? – Em… No, I’m sorry. – So, why are you here?

 

In effetti la domanda sorge spontanea. Cosa ci fa una ragazza italiana, che non parla giapponese, in una città della costa sud-occidentale del Giappone, al di fuori delle comuni rotte turistiche?

Per gli abitanti di Yonago è talvolta strano, talvolta buffo o piuttosto curioso e certamente fonte di stupore, avere a che fare con un europeo che non parla la loro lingua e non è qui per insegnare l’inglese nelle scuole private, come quasi tutti gli occidentali residenti in città.

Yonago è una cittadina della prefettura di Tottori che, tra le 47 prefetture giapponesi, è quella meno popolosa e forse una delle meno note. Si trova nella striscia di terra che divide il Lago Nakaumi dal Mar del Giappone ed è sovrastata dall’imponente Monte Daisen, il più alto vulcano inattivo della regione Chūgoku. Nonostante sia una città di discrete dimensioni,  parecchio trafficata ed un importante crocevia commerciale, sparsi fra le case, qua e là, si trovano piccole collinette verdi e soprattutto molti piccoli terreni coltivati con diversi tipi di ortaggi. Percorrere le strade di Yonago la mattina in bicicletta significa certamente trovarsi in mezzo al traffico (in città i mezzi pubblici non sono diffusi e praticamente tutti prendono l’auto per andare al lavoro) ma anche avere l’occasione di osservare graziosi gruppetti di bambini che vanno a scuola a piedi, tutti rigorosamente in divisa, e anziani con il tipico cappello di paglia a cono, chini a lavorare sugli orti. Un bello sguardo su questo piccolo angolo di Giappone.

Dunque, cosa ci faccio qui?

Lavoro al “Chromosome Engineering Research Center – CERC”, all’interno del campus del “Tottori University Hospital”, che comprende un grande ospedale, la facoltà di medicina e diversi istituti di ricerca, e si trova proprio qui a Yonago, sotto alla collina più alta, dove sorgono le rovine del vecchio castello. Sono qui dalla fine di maggio e ci resterò fino alla fine di novembre, per un totale di 6 mesi, al fine di completare il mio dottorato di ricerca in Biotecnologie, grazie ad una collaborazione nata fra il CERC e il BioERA Lab http://www.bioera.dipic.unipd.it/Bioera/ dell’Università di Padova.

 
 
 

Tottori University, Faculty of Medicine and Mt. Daisen. Yonago City, Tottori Prefecture, Japan. Foto Tratta da Wikipedia.

Qui si costruiscono cromosomi artificiali che permettono di introdurre dei geni nelle cellule. Possono portare, ad esempio, la copia “sana” di un gene che nei pazienti affetti da malattie genetiche è mutato, cioè non funziona. Questo permette di “correggere” la malattia nelle cellule del paziente.

Questa tecnologia qui viene unita a quelle delle cellule “staminali pluripotenti indotte” (iPS cells), ottenute per la prima volta proprio qui in Giappone, a Kyoto, nel 2007. Le “iPS cells” hanno modificato radicalmente il significato di “cellula staminale” perché evitano il sacrificio degli embrioni ed i problemi etici ad esso legati e sono considerate una delle più importanti scoperte scientifiche dell’ultimo decennio.

Cosa significa? Che potenzialmente si potrebbe prendere una semplice cellula dalla pelle di un paziente, correggerne il difetto genetico inserendo un cromosoma artificiale, quindi “riprogrammarla” allo stato di cellula staminale, ovvero farle dimenticare di essere una cellula della pelle e farla diventare una cellula “pluripotente”, capace cioè di differenziare in qualsiasi tipo di cellula del corpo umano (ad esempio in cellule del cuore). Queste cellule potrebbero quindi essere usate per curare la malattia del paziente stesso da cui derivano, ovvero il paziente verrebbe curato con le sue cellule staminali “corrette” geneticamente.

Sono qui per imparare molte di queste nuove tecniche all’avanguardia e portarmi a casa un bel bagaglio di conoscenze. Certamente, chi di solito dall’Italia parte per andare all’estero a studiare e far ricerca, almeno nel mio ambito, va in uno dei tanti eccellenti centri di ricerca europei o americani. Io mi sono trovata di fronte all’occasione di trascorrere un periodo all’estero in un centro di ricerca, certamente di eccellenza, ma dalla parte opposta del mondo (non solo in senso geografico), e ho pensato, forse un po’ inconsapevolmente, forse un po’ incoscientemente, di prendere al volo l’occasione e di partire anche se non conoscevo la lingua e sapevo ben poco di questo paese che viene talvolta definito come “un mondo a parte”. Tuttavia spero anzi, sono convinta, che la mia scelta mi porterà alla fine ad avere un bagaglio pieno non solo di nozioni scientifiche ma arricchito dalla preziosa esperienza di aver conosciuto e vissuto un po’ di questa cultura così lontana da noi e allo stesso tempo così affascinante.

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