Gianfranco Bettin: «Il movimento resiste e ha cambiato pelle. Ma gli interlocutori non sono più credibili»

Questa intervista fa parte dello speciale A Nordest di Genova sui 20 anni delle giornate del luglio 2001. A Nordest Di che mette a disposizione questo spazio per ricordi, emozioni, fotografie, testimonianze che potete inviare, in qualsiasi forma, alla mail redazione@anordestdiche.com

Tra un mese fanno vent’anni. L’età di uno studente universitario. A luglio sono trascorsi vent’anni dal G8 di Genova. Che infiammò le strade e le pagine dei giornali di quei giorni. Gianfranco Bettin, sociologo, politico ambientalista e scrittore, all’epoca dei fatti, come direbbe qualche giurista, era nella pancia di quella cronaca divenuta subito storia.

A ripensarci ora, qual è la prima immagine che le passa davanti agli occhi?

È una foto panoramica, un colpo d’occhio. Vedo Genova dall’alto, i cortei allo sbando, il fumo nero che si alza un po’ ovunque, la gente spaesata.

E quale sensazione le comunica?

Mi rimane ancora oggi addosso la voglia di un esito diverso, l’incomprensione per scontri senza senso, senza regole, senza forma. Perché a Genova eravamo andati esattamente per il contrario, per confrontarci con altre idee di evoluzione della storia e di futuro. Ma tutto prese una piega incredibilmente differente. Avverto in modo nitido il forte contrasto tra le aspettative e la disintegrazione di quei giorni.

Quale fu il suo ruolo all’interno dell’evento?

Assieme ad altri politici, amministratori e parlamentari avevamo il compito di preparare la manifestazione, costruire il terreno tra il movimento, il governo, le forze dell’ordine, la città. Fu un percorso lungo, il mondo che aveva deciso di sfilare in piazza era molto variegato, lo si definì no global anche se preferirei chiamarlo alter global. Il respiro era ampio, due anni prima c’erano state le proteste di Seattle in occasione della conferenza Omc, insomma non ci trovavamo a Genova per caso.

Chi manifestava?

Molte realtà legate assieme da un idem sentire, da un’insoddisfazione per la piega che aveva preso lo sviluppo economico, per lo sfruttamento dell’ambiente e per le dinamiche socio-economiche sempre più evidenti che portavano a un aumento costante delle disuguaglianze. In piazza c’era la faccia critica della promessa di benessere del liberismo. Era un movimento intergenerazionale, interclassista e interconfessionale. Una rete molto articolata che andava dai cattolici, agli ambientalisti passando per gli scout e per centinaia di gruppi tematici.

E qualche Black bloc di passaggio…

No, i Black bloc a Genova non arrivarono, checché se ne dica. Avevano fiutato, diciamo, la teatralizzazione dell’evento e rimasero lontani dalla Liguria. Quelli che qualcuno scambiò per Black bloc altro non erano che gruppetti legati all’anarco-movimentismo e a centri sociali europei, non certo italiani.

Il vostro lavoro preparatorio di mesi e mesi però alla prova dei fatti non funzionò e la manifestazione deragliò. Come mai?

Vero, tutti i nostri sforzi fatti per arrivare a garantire l’espressione delle opinioni di tutti in modo pacifico, anche di quelle più radicali, saltarono. Per un motivo molto semplice: la catena di comando politica cambiò improvvisamente strada e volle scatenare il caos.

Perché?

Il centrodestra aveva appena vinto le elezioni, volevano dare un segnale molto forte che l’aria era cambiata.

Ma quando ci fu questo cambio di rotta rispetto alla linea «concordata»?

Il cambio di gestione avvenne poco prima dell’apertura del meeting. E dirò di più, ricordo proprio il momento in cui accadde. Era la notte tra il giovedì e il venerdì, circa alle tre. Ci incontrammo con i nostri consueti interlocutori e ci dissero esattamente così, che l’aria era cambiata. Utilizzarono parole molto nette: «Non siamo più in grado di garantire nulla».

Immaginiamo la tensione del mattino seguente, tra i pochi, come voi, che sapevano.

Sì, ma sinceramente non pensavo a una cosa così plateale.

E invece.

Invece accadde. Ricordo benissimo quel momento. Eravamo in via Tolemaide, io ero di là dell’incrocio assieme a poliziotti e parlamentari che formavano il gruppo di contatto istituzionale, diciamo. A un certo punto vediamo sbucare un gruppo di carabinieri all’inseguimento di alcuni, cosiddetti Black bloc. Ma poi all’improvviso cambiano direzione e attaccano la parte di corteo in cui c’erano le tute bianche. Noi tutti pensiamo a un errore ma le cariche continuano, partono i lacrimogeni e tutto non ha più senso. (Fa una pausa, ndr). Nessuno aveva nulla con sé, né molotov, né niente. Nessuno dei manifestanti voleva fare quella roba là.

Chi decise il cambio di rotta? Un’idea dopo vent’anni se l’è fatta?

Componenti di estrema destra presenti negli apparati. Loro hanno deciso. E la responsabilità è tutta politica. La gestione di quei giorni, dalle cariche in strada ai pestaggi di Bolzaneto e della Diaz, è una delle vicende più abnormi accadute nel nostro Paese dal dopoguerra.

Poco più di un mese dopo arrivò l’attentato dell’11 settembre e per i movimenti no global iniziò una sorta di declino.

L’attentato alle Torri Gemelle scaraventò quel movimento in una nuova era. Spostò di fatto le cose dal piano politico a un piano politico-militare. Un campo in cui il movimento non poteva arrivare. Ma altre mobilitazioni ci furono dopo Genova, penso alla marcia della pace di Firenze nel novembre del 2002 o alla grande manifestazione contro la guerra nel 2003.

La militanza globale però intraprese un percorso discendente.

Non dobbiamo ragionare con le vecchie logiche novecentesche e dire che non esiste più il movimento semplicemente perché non ci sono le assemblee e i cortei in piazza. Quelle sono delle fasi di emersione che ciclicamente avvengono ma non mettono in discussione i movimenti stessi. Che continuano ad esistere, sono anzi cresciuti e si sono radicati in terreni nuovi attorno a temi specifici (quindi sono diventati verticali) o a problematiche territoriali (quindi sono diventati locali). Il punto semmai è un altro.

Quale?

Che è maturata una sfiducia nei confronti dei decisori politici, nelle grandi istituzioni come l’Onu e l’Unione Europea. E questa è un’eredità negativa che è partita proprio da Genova. Da allora in poi c’è stata una perdita di credibilità per quei mega eventi. Non vale la pena confrontarsi, si perde la voglia di fare il proprio teatro politico – nel senso più alto del termine – perché dall’altra parte non ci sono più interlocutori credibili.

A livello globale solo i “Fridays for Future” sembrano crederci ancora.

Sì, ma questo movimento, fortemente caratterizzato dall’immagine e dalla presenza di Greta Thunberg, viene da lontano, dal lungo lavoro su clima e ambiente fatto in passato. Un lavoro che ora è stato assunto direttamente dai più giovani e che loro, assieme a Greta, stanno portando avanti.

Massimiliano Cortivo

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