Lettera aperta al futuro ministro dell'Istruzione

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Caro futuro ministro dell’Istruzione,
lo so che la mia preoccupazione non è in cima all’agenda di nessun partito in questo momento, ma credo che quando si insedierà e prenderà i pieni poteri legati al suo ruolo, fra un mese, la condizione dell’università italiana richiederà immediatamente un intervento d’urgenza.

Le scrivo perché sono un ricercatore confermato in Sociologia e in questo momento mi sento non solo scarsamente
valorizzato, ma soprattutto sotto-utilizzato. Guadagno metà o un terzo degli stipendi di alcuni miei colleghi europei e stranieri; ma, non per questo, credo di fare abbastanza, rispetto a quanto ricevo. I soldi che l’ultimo governo ha stanziato per i cosiddetti Progetti di Ricerca d’Interesse Nazionale rappresentano meno di un quinto in termini reali degli  omologhi investimenti in ricerca che i ministeri erogavano 10 o 15 anni fa. Questo fa sì che pochissimi di noi siano impegnati in progetti nazionali. Qualcuno lavora in progetti di Ateneo, altri in progetti europei. Poco più di un decimo degli strutturati, anno per anno, produce pubblicazioni di taglio empirico. Prive di risultati innovativi, le conferenze si trasformano, sempre più, in mere occasioni rituali.

Tutto ciò continua a fare arretrare le nostre università nelle classifiche mondiali. Mancano i soldi per i progetti nazionali.
Mancano le strutture e la ‘cultura della internazionalizzazione’ necessarie per attirare sempre più finanziamenti dalla Unione Europea. Manca poi una vera e propria valorizzazione del merito. L’abilitazione nazionale, introdotta dalla Gelmini, si è trasformata in nient’altro che in una farsa, se è vero che ai commissari, in alcuni casi, sarebbe richiesto di ‘leggere’ più di 60 pubblicazioni al giorno, per valutare tutti i candidati associati o ordinari nei termini previsti. Questa stessa misura del merito, di fatto, come molte altre, non prevede alcuna valorizzazione dell’impegno didattico. Nella pratica, se ci impegniamo a migliorare le nostre lezioni, a seguire più tesisti, a condurre esami che gratificano di più gli studenti, non facciamo altro che perdere tempo, in una ottica di carriera.

Il giudizio degli studenti, infatti, non ha ancora, se non sulla carta, il peso che dovrebbe avere nella carriera di un docente. Al contrario, molte positions nelle università straniere prevedono un tutoring ampio degli studenti e l’obbligo di impartire lezioni anche nei corsi post-graduate e nei dottorati. Le stesse pubblicazioni sulla base di cui verremo valutati non misurano un vero merito, ma più spesso una capacità logorroica e un accesso semplificato al mondo dell’editoria. I libri, infatti, valgono ancora troppo rispetto alle pubblicazioni su riviste scientifiche e spesso non fanno avanzare altro che la deforestazione e l’affollamento dei magazzini e delle biblioteche. E i criteri con cui queste vengono valutate in fasce di prestigio sono, per alcuni settori, molto discutibili. Sogno una università che, al contrario, si approcci al modello open sempre più diffuso in atenei come Harvard, che mettono a disposizione di tutti, sulla rete, i propri corsi.
La stessa valutazione del merito economico in termini di bilancio, nella distribuzione dei punti budget, è stato annullato poco prima delle ultime elezioni, al solo fine di raccogliere qualche consenso in più. L’università italiana non deve essere compressa, ma deve crescere. La contrazione del fondo di finanziamento ordinario, in molti Atenei, si è trasformata in un drastico ostacolo al diritto allo studio e ad un aumento delle tasse universitarie che ha fatto allontanare, in 10 anni, 60.000 studenti dai nostri Atenei. Questo fa sì che molti corsi di Laurea chiudano e che alcune fondamentali discipline scientifiche scompaiano dopo decenni, o secoli, dalle nostre università. Avremmo guadagnato molto di più se invece di rendere più inaccessibile la nostra università agli studenti italiani, fossimo riusciti ad attirare studenti stranieri, pubblicando siti istituzionali in lingua inglese, pubblicizzando la nostra offerta didattica sui network internazionali, implementando i rapporti e le convenzioni con altre università, in giro per il mondo, migliorando l’immagine pubblica che l’università ha in Italia. Molte delle persone che conosco, non sanno cosa studi un sociologo e cosa faccia un ricercatore. Ancora, avremmo speso molto di meno, se non avessimo dovuto trasferire, di continuo, uffici e  competenze, a causa delle ripetute riforme universitarie, con il risultato di un continuo disorientamento degli studenti.
Nel solo 2012, 32633 giovani italiani hanno lasciato la nostra nazione per emigrare in Germania. Una casa pericolante non si regge senza pilastri. Non ce lo possiamo più permettere.

Vincenzo Romania

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