Mongolia, storie di cavalieri e di gher

FacebookTwitterLinkedInWhatsAppEmail

La Mongolia e il suo popolo restano indissolubilmente legati al suo condottiero più valoroso, il leggendario Gengis Khan, il “signore di tutte le genti che abitano nelle tende di feltro” (come fu proclamato quando riuscì a riunire insieme le varie tribù mongole sul finire del XII secolo), colui che diede il primo e più forte impulso alla più grande invasione che la storia ricordi e grazie alla quale i suoi discendenti riuscirono a creare il più grande impero di tutti i tempi. Ma del leggendario impero mongolo e del suo valoroso condottiero oggi non rimane che il racconto della loro storia poiché a noi non sono giunte né le rovine della mitica capitale Karakorum (distrutta dai cinesi) né il sito della tomba del mitico cavaliere. Non hanno avuto sorte migliore i centinaia di templi buddisti, costruiti dai monaci mongoli nei secoli seguiti alla grande invasione del tredicesimo secolo e distrutti negli anni trenta dello scorso secolo per ordine dei comunisti sovietici guidati da Stalin; di questi templi oggi rimangono solo le rovine e alcune ricostruzioni, che lasciano immaginare al turista, con tristezza e rispetto, la grandiosità e la solennità di quelle costruzioni. La mancanza di testimonianze concrete è uno degli elementi caratteristici della Mongolia: la sua storia risiede nel racconto e ciò concorre ad accrescere la leggenda di quei valorosi cavalieri capaci di conquistare quasi tutta l’Asia e una parte dell’Europa correndo per giornate infinite al galoppo dei loro instancabili destrieri. La tradizione di grandi guerrieri e cavalieri si può ritrovare ancora oggi nella più importante festività nazionale mongola, il Naadam, manifestazione durante la quale gli uomini si sfidano in tre fondamentali discipline: la corsa coi cavalli, il tiro con l’arco e la lotta libera.

 

Nelle sconfinate steppe della Mongolia centrale, tra il blu intensissimo del cielo e il verde della prateria, che si dipinge di bianco nel corso dell’inverno a causa della neve che, anche se scarsa, copre ogni cosa nel suo mantello fino al termine della primavera, tutto assume una forma monotona, senza punti di riferimento, e ci si sente come rinchiusi in una prigione senza confini; e invece, a poco a poco, viaggiando verso sud, il verde intenso della steppa in cui è immersa la capitale Ulan Bator lascia il posto ad un paesaggio più brullo, l’alto Gobi, che anticipa il deserto vero e proprio che sconfina poi nella Cina. Questo deserto, per quanto immenso e arido, non è privo di vita ed è a suo modo abitabile: qui infatti si possono incontrare i mandriani di cammelli, che sostituiscono quelli di cavalli che vivono nel centro-nord del paese. Questi antichi e moderni cavalieri (intendiamo per “moderni” quelli che hanno preferito il lusso di una moto come mezzo di trasporto rispetto al tradizionale cavallo, che rappresenta ancora oggi qualcosa più dell’animale simbolo del paese) vivono nelle tradizionali gher, che si incontrano isolate a distanza di decine di chilometri l’una dall’altra. Le gher sono le “abitazioni” (guai a chiamarle tende se non si desidera risvegliare lo spirito di Gengis Khaan nelle persone del posto!) di colore tipicamente bianco e di forma circolare, costruite con bastoni di legno e teli di feltro (materiale perfetto per resistere al freddo, provare ad accendere il camino all’interno per credere!) e sempre pronte ad essere smontate e rimontate per assecondare le esigenze del bestiame nella ricerca di nuovi pascoli e nuove pozze d’acqua. Per scoprire come questi signori della prateria vivono ancora oggi da nomadi è sufficiente avvicinarsi ad una delle loro abitazioni, urlando in anticipo per far sentire il proprio arrivo ed evitare di essere assaliti dai cani da guardia, che sempre sorvegliano le loro gher; i mongoli sono infatti persone molto ospitali e sono felici di accogliere i turisti all’interno delle proprie abitazioni e di spezzare così la monotonia e la solitudine delle loro giornate, passate a sorvegliare il bestiame, mungere gli animali e preparare il formaggio.

Le gher sono vissute come vere e proprie case e ogni elemento di cui sono composte trova la sua origine nella secolare tradizione: la porta della gher è sempre rivolta verso sud per evitare che il vento possa portare il freddo e la polvere; nell’ interno, all’opposto della porta di ingresso, vi è la zona “sacra” della gher, dove di solito è situato un altare con la statua di Buddha da cui pende una sciarpa leggera di colore blu, che nella tradizione degli sciamani simboleggia il cielo (questa sintesi tra buddismo e sciamanesimo è un tratto tipico della spiritualità degli abitanti della Mongolia); un lato della gher è destinato alla donna, mentre l’altro all’uomo; la parte centrale, dove è posto il braciere e dove sono conficcati i due grossi pali che sostengono l’intera struttura dell’abitazione, non può essere attraversata e occorre quindi muoversi in direzione circolare all’interno della gher, seguendo sempre lo stesso senso di rotazione; accanto a questi elementi tradizionali balza subito all’attenzione la presenza di alcuni strumenti tecnologici, come ad esempio moderni televisori, antenne paraboliche, mini-pannelli solari per usufruire dell’energia elettrica: tutto ciò genera un quadro da cui traspare un’armoniosa dissonanza e grazie al quale si può comprendere in un attimo come qui la storia stia recuperando in fretta quel tempo perduto, come se di colpo gli abitanti di queste terre si fossero risvegliati da un lungo sonno. La tradizione però è ancora molto forte nelle aree rurali del paese e detta la sua legge in tema di educazione: ad esempio, durante una conversazione di fronte ai membri della famiglia non si devono mai tenere le mani incrociate e quando ci si siede sui tappeti che coprono la terra non si devono mai mettere le gambe tese verso il centro della gher; ovviamente è inevitabile compiere qualche gaffe ma la famiglia è sempre comprensiva verso i goffi atteggiamenti dei turisti visitatori ed è felice di accoglierli con una tazza di latte caldo e del formaggio fatto rigorosamente in casa. In cambio della breve ospitalità i visitatori di solito offrono dei semplici regali, come ad esempio dei quaderni e dei pennarelli per i bambini, dei dolci o degli strumenti utili per cucire, illuminare o tenere pulita la gher per i genitori, evitando a questi ultimi almeno un viaggio verso il lontano villaggio più vicino. Al termine della visita, con la stessa semplicità e spontaneità con cui sono stati accolti, i turisti vengono salutati dai membri della famiglia, e di nuovo le loro strade si dividono, certi che non si intrecceranno mai più ma felici di aver vissuto questo breve e preziosissimo incontro.

 

Enrico Finucci,

viaggio in Mongolia (4 – 18 agosto 2012). Leggi la prima puntata

Un ringraziamento particolare all’agenzia “Viaggi Giovani” di Trento (http://www.viaggigiovani.it), che mi ha offerto l’opportunità di visitare queste remote e bellissime terre.

Ti potrebbe interessare