Natale in Vietnam (un po' il nostro cinepanettone...)

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Il Natale, in Viet Nam, è una festa importata, un po’come Halloween da noi. Si festeggia, ma non si sa bene come e perché. Se si esclude la comunità cattolica, per i più è una corsa alla bancarella mista a un aumento forsennato del traffico già forsennato di per sé, addobbata con decorazioni molto pacchiane.

Per recuperare un po’ di spirito, abbiamo deciso di modificare il nostro giro che ci avrebbe portati tra i villaggi sperduti di alcune minoranze etniche e siamo rimasti ad Hanoi. Perché se già ad Hanoi non hanno capito tanto bene, le minoranze etniche, giustamente, non hanno neanche la più pallida idea di cosa si sta parlando. Natale è Natale.  Ed è stato meglio di quanto potessimo immaginarci il 21 sera, quando rientrati in albergo da un festeggiamento anticipato e molto partecipato del gruppo couchsurfing di Hanoi, pensavamo fosse finita lì.

Quella sera eravamo un centinaio. Tra veri vietnamiti, vietnamiti “adottati” e viaggiatori di passaggio. Da un bar sulla terrazza più panoramica della città ci siamo conosciuti, scambiati esperienze, tradizioni e piccoli regali. Siamo rientrati contenti e un po’più “riscaldati”. Con la serenità d’animo di chi è stato bene e in fondo non chiede di più.

Invece il 24 dicembre è stato un’escalation di sorprese. Per prima cosa a pranzo, nel nostro solito ristorante “a buffet”, abbiamo trovato le rape stufate. In mezzo ai vermetti fritti, al maiale alla griglia, al riso in bianco, alle rane ripassate in padella. Erano lì, ignorate da tutti, con quell’inconfondibile verde-bottiglia e le cime che spuntavano tra le foglie. Mancavano solo le olive nere e le alici. Prima che qualcuno ci prenda per pazzi scatenati, corre l’obbligo di ricordare che siamo pugliesi: al primo assaggio è stato come teletrasportarsi a casa per la durata di un piatto di verdure, che non era neanche proprio uguale, ma è inutile fare troppo i preziosi. Il fatto è che avrei avuto voglia di precipitarmi in cucina ad abbracciare il cuoco.

Con il visto agli sgoccioli e per prepararci al passaggio in Laos, ci siamo messi a cercare in giro qualche libro da scambiare nelle librerie per viaggiatori, che funzionano come una catena di Sant’Antonio. Chi parte porta dei libri con sé, poi finisce di leggerli e li scambia con libri letti e scambiati da altre persone. E qui è sempre la stessa storia: ti ritrovi davanti a mobili interi di libri in inglese, in francese, in tedesco, in svedese. Poi se cerchi bene e la fortuna ti accompagna, in fondo, nell’ultimo scaffale, quello che neanche si vede se stai in piedi, ci dovrebbero essere quattro o cinque libri impolverati in italiano. Di solito sono gialli o romanzetti di poca cosa. Stavolta ho trovato una copia ingiallita di Inshallah di Oriana Fallaci, con degli appunti presi in greco. Ho dedotto che, ancora una volta, non era un viaggiatore italiano a essere passato di lì per scambiare il suo libro, ma un greco che stava imparando l’italiano. Mi sono arresa, di viaggiatori italiani ce ne sono pochissimi. Persino tutti gli svizzeri che abbiamo incontrato finora erano tedeschi o francesi, della comunità italiana in viaggio neanche l’ombra. Però ho recuperato la mia copia di Inshallah.

Durante la festa del pre-Natale, abbiamo conosciuto una coppia di couchsurfers che vive in Viet Nam da poco più di due mesi, lui è americano, lei tedesca. Con loro, lontani dalle famiglie come noi, abbiamo trascorso la cena. Il primo posto scelto non ha avuto successo. Lei è una vegetariana, a sua detta “molto ammorbidita”. Il pesce riesce anche a mangiarlo. In Viet Nam ce n’è tanto ed è freschissimo. Per esempio la scorsa estate in Puglia è scoppiato uno scandalo quando per la Fiera del polpo di Polignano a Mare è saltato fuori che tutti i polpi non erano affatto pugliesi, ma erano importati da qui.

Insomma, quella sera era così fresco che si muoveva ancora e la morbidezza vantata pochi minuti prima si è sciolta in una crisi di pianto irrefrenabile che ci ha fatti ripiegare su un ottimo indiano poco più in là. Soliti discorsi sui viaggi: “Anche noi siamo stati in Serbia”. “Sì, il Guca festival, la musica balcanica, i fratelli Markovic, Goran Bregovic”. “Ma dai? C’ero anch’io!” “Quando? La stessa sera, quella di due estati fa, per i 50 anni del festival?”.

Che piccolo il mondo.

“In Italia ci siete mai stati?” “Mah, sì, Firenze, Venezia. A Roma mai. Una volta abbiamo fatto autostop”. “Autostop in Italia? E ha funzionato?” “Più o meno…dovevamo andare da Pistoia a..” “Aspetta, hai detto Pistoia? Non sarà stato quando Massimo ha organizzato il meeting? Cento tende in campagna?” “Sì, certo! C’eravate anche voi?!”.

È stato così che abbiamo scoperto di avere una decina di amicizie in comune. Dieci amicizie in comune la notte di Natale, con un newyorkese e una berlinese ad Hanoi per lavorare come insegnanti di inglese tra un viaggio e l’altro. E mentre discutevamo sul paradosso delle coincidenze davanti a una torta a forma di tronchetto, il nostro Natale tropicale è scivolato così. A conoscersi e riconoscersi da un capo all’altro del mondo, che sembra smisurato, e invece è finito. E se lo giri e lo rigiri, prima o poi ritrovi tutti.

Maria Elena Ribezzo, Marcello Passaro

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