Padova, c'era una volta il Bronx

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C’era una volta Via Anelli, il Bronx di Padova. And e Arte Laterale propongono, all’interno del blog Padova, una città in divenire, questo viaggio fotografico di Alberto Buzzanca nella memoria di un luogo che ha fatto parlare l’Italia e ora giace deserto come sinistro ammonimento.

Padova-Bronx…per modo di dire

Il Bronx è, con Mahattan, Qeens, Brooklyn e Richmond uno dei cinqie boroughs Comuni) di New York.

517_via_anelli_corriere_della_sera_magazine_2004Una parte di esso (South Bronx e in particolare Hunt’s Point e Morrisania) ormai da molti anni è simbolo e metafora delle peggiori forme del degrado urbano: quello abitativo e quello umano, interi isolati (blocks) e quartieri ridotti in macerie da incendi e dal vandalismo, condomini in abbandono totale, appartamenti senza acqua nè luce, nuclei familiari in condizioni ben al di sotto dei limiti della decenza e della possibilità di sopravvivenza economica, territorio di bande armate, violente, e scenario delle più turpi imprese malavitose, teatro di prostituzione di ogni tipo e di spaccio di droghe.

Così in ogni città ormai il quartiere con maggiori difficoltà di ordine pubblico e di controllo sociale diventa un “Bronx”, anche se le origini ed i caratteri sono molto differenti, anche se l’entità – fatte anche le dovute proporzioni – è notevolmente più piccola. “Bronx” diventa un luogo comune, una definizione banale ma comoda per saltare qualsiasi analisi e l’ormai indispensabile presa di posizione a difesa di un abitare dignitoso per tutti, fuori dalle speculazioni brutali e dalla costrizione alle ammucchiate, promiscue in locali divisi e pagati per “spazio materasso”, a volte in doppio affitto, diurno e notturno. Il “Bronx” si costituisce quando il massimo di speculazione si raggiunge autorizzando una sorta di gestione interna nella quale il proprietario interviene solo per riscuotere, senza più badare all’ordinaria manutenzione, lasciando che l’immobile diventi fatiscente fino ai limiti della tollerabilità, fino alla necessità di abbattimento e di avvio di un risanamento che viene programmato per zone, una volta sgombrata l’area. A questo limite è giunto il Bronx di Padova: le condizioni di vita all’interno sono ormai intollerabili, disumane. Se ne parla quotidianamente sui giornali, dando però poca voce a chi vive dentro. Qualcuno ha filmato di nascosto spaccio di droga e le condizioni insostenibili di vita per donne e bambini, sopratutto, ma anche per i molti lavoratori che al mattino presto si recano in fabbriche, aziende, negozi della periferia e della provincia. “E’ diventato un dormitorio insicuro e malsano, dal quale scappare al più presto – mi dice un nigeriano – e pensare che ancora oggi, come otto anni fa quando arrivai io, a Palermo, a Napoli, a Bari, a Roma, a Genova consigliano agli immigrati, clandestini e non, di andare in via Anelli per trovare alloggio. Via anelli è ormai famosa in tutto il mondo dei migranti, anche se è un piccolissimo quartiere. Anche io vi ho vissuto con sette connazionali in poco più di quaranta metri quadrati: un’esperienza bestiale”. Il racconto si apre alla nostalgia di casa, alle scuole superiori frequentate a Lagos, alle esperienze ed ai sogni che avevano motivato la partenza, alle delusioni, alle terribili umiliazioni, alle frustrazioni di tanti giovani, inimmaginabili da chi non si viene a trovare nelle loro condizioni, in balia di forti organizzazioni di ogni tipo di sfruttamento della persona e non solo della forza lavoro.

Il “Bronx”, la concentrazione abitativa abbandonata a se stessa, selvaggia, è una delle peggiori forme di sfruttamento perché consente di spingere al massimo livello il disagio sociale, l’instaurarsi di rapporti basati solo sulla rivalità etnica, sulla forza e sulla vilenza, consente alla malavitadi creare una zona franca di operazioni. “E’ facile cascare nelle trappole delle offerte degli spacciatori, anzi è impossibile evitarle, se non andandosene al più presto – spiega ancora l’amico nigeriano – Alcuni accettano e poi riescono a liberarsi, ma per lo più finiscono in carcere e poi non è più finita. Ma al di la di questo sono proprio le condizioni igieniche, sanitarie, ambientali che sono ormai inaccettabili, insopportabili. E il costo per persona è sempre più alto.”  

 

Tutto questo è stato scritto molte volte sui giornali, ora ponendo l’accento sugli aspetti delinquenziali ora sull’intollerabilità di una simile situazione da parte di una società civile. Ormai non si può credere e neppure fingere che abitare nel ghetto di via Anelli sia una scelta degli immigrati ed è vergognoso anche solo pensare che si adagino passivamente ad una situazione sempre più grave.

 

“E’ come vivere in un inferno che ti mangia ogni speranza di uscire e di riuscita nella vita. Ci vuole molto coraggio per venirne fuori. E voglio dire che via Anelli anora non è il peggiore dei luoghi in cui si trovano a vivere extracomunitari”.

 

Alberto Buzzanca ha voluto entrare in quell’inferno per capire e documentarlo. E’ entrato con qualcuno del posto che gli ha fatto da guida, senza alcuna arroganza, senza sotterfugi, fotografando con discrezione, con profondo rispetto umano, con tenerezza anche, per cogliere l’atmosfera interna, per registrare i segni del degrado ambientale, le difficoltà del vivere civile, senza colpevolizzare, senza giudicare situazioni e storie di migrazione che sono ben lontane dalla nostra conoscenza, anche se poi in tante si rassomigliano; non è andato alla ricerca di responsabilità ma solo per cercare di comporre una sequenza, un reportage, sul campo sul campo per averne più esatta nozione e per testimoniare che il ghetto va aperto, che l’ambiente va totalmente risanato, che l’umanità che vi si rifugia quasi senza più scampo va liberata e restituita alla dignità del corpo sociale, alla luce di una convivenza civile. Con grande senso di umanità, il fotografo non si è nascosto dietro l’obbiettivo, non ha infierito sui particolari più scabrosi in nome di una verità di cronaca che cerca ed isola dal contesto le immagini più crude; Buzzanza ha tralasciato volti, gesti, esasperazioni, ed ha preferito indagare sui “percorsi” giornalieri, sulle tracce del vivere quotidiano, sui guasti, sulle luci, sui colori tormentati e vivaci, saturando la stampa della pellicola perché i contrasti e gli accostamenti risultassero meno drammatici che alla vista, meno sconvolgenti in virtù di un colore, di un raccordo armonico tra una parete ed un intervento estemporaneo di riparazione o di ridipinta di un angolo, di una caduta di calcinacci; ad ha selezionato episodi eloquenti nel loro apparente vuoto, nel loro apparente silenzio, nella vacuità di di scantinati, scale, corridoi, terrazze. Non ha insistito sulle figure, non ha violato interni, no ha cercato nè le une nè gli altri, perché già tanti elementi, interni ed esterni dicono il malessere delle persone, delle famiglie che abitano spazi esigui e in rovina dove saltano le tubature dell’acqua e si devono riparare alla buona con stracci, dove siesta spesso senza luce per cortocircuiti e incendi, dove le scale sono molto pericolose perché mancano pezzi di ringhiera e l’illuminazione è poca o inesistente.

 

Negli appartamenti il vociare si spegne un attimo prima del passaggio del fotoreporter e dei suoi scatti: Mi guardavano con stupore, con ammutolita sorpresa:un fotografo, forse per i giornali – sembravano pensare – o forse un altro curioso, forse ancora uno che ci vuole sbattere fuori e anora una volta abbandonarci a chi continua a speculare su di noi”.

 

E’ difficile davvero penetrare e percorrere via Anelli, ancora più difficile penetrare e comprendere quegli sguardi incrociati brevemente salendo le scale di un condominio, trovandosi di fronte a scene di miseria e di abbandono, di un degrado come mai era capitato qui di vedere, e pensare che ciò non accade in un film sugli slum delle megametropoli del mondo, sulle bidonville africane, sudamericane, asiatiche, ma a Padova, da noi, nella città/banca del ricco e operoso Nord Est.

 

Nelle immagini di Alberto Buzzanca parlano i campanelli bruciati, le cassette della posta irrimediabilmente senza sportelli e senza nomi, parlano i muri, i materassi sventrati, le finestre, i vuoti, le sconnessioni, le luci fioche di lampadine che bruciano presto e che vengono tardivamentete sostituite, gli scantinati allagati, per lo più ormai interdetti. Non c’è intento moralistico, il taglio è obbiettivo senza particolari ricercatezze, fermo e ben orientato verso i documenti, particolari che senza enfasi testimoniano l’elevato livello di degrado e la consistente difficoltà esistenziale: gli spiazzi e le scale, innanzitutto,  come luoghi costantemente percorsi, le pareti instoriate con scritte anche oltraggiose e tanti nomi, numeri, porte e finestre cementate, fessure che consentono scorci d’interni abitati con grande dignità e pulizia o con palese disperazione, ombre che attraversano corridoi, carcasse di biciclette incatenate alle ringhiere, facciate annerite dagli incendi incidentali e dolosi, ancora una volta a dire la fatica di vivere, la fatica di “convivere” doverono di regola la prevaricazione, lo scontro etnico, la  paura, il silenzio, l’omertà.

 

Credo che l’impressione prima e più forte che dà questo efficace e intelligente reportage di Alberto Buzzanca sia proprio quella di una sequenza muta, in cui si possono sì percepire sinteticamente, con i colori e le atmosfere, anche rumori ed odori, contatti, ma come in un film rimasto seza sonoro o per un guasto o, meglio, perché del tutto ininfluente sul senso dell’immagine o persino deviante in rapporto alla necessità di prendere atto della qualità pessima dell’ambiente, dei luoghi o, come si usa spesso dire oggi, dei “non luoghi” (per mancanza di vera libertà di gestione, assenza di autentica possibilità relazionale e di efficaci incentivi all’inserimento e alla solidarietà) in cui è “costretta” a vivere tanta parte dei popoli che si sono messi in cammino alla ricerca di migliori, più umane, condizioni di vita per se e per le famiglie.

 

Quello di Buzzanca è un semplice sguaro dentro una realtà fervente di umanità ma che appare, ci appartiene dall’esterno e all’occhio fotografico, muta e vuota, svuotata di senso perché drammaticamente inimmaginabile e ogni giorno più pesante, più intollerabile, invivibile; ed è uno sguardo ricco di partecipazione solidale, di rispetto, ma anche altamente professionale, di reporter efficace e di buon narratore, che non ha bisogno di immagini eclatanti di verità, le quali, enfatizzate, tendono a farsi e a essere recepite come “spettacolo” e, dunque, a veder ridurre notevolmente il richiamo, la comprensione del problema e la riflessione su una indispensabile mobilitazione civile.

 

Agosto 2004   Giorgio Segato

 

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C’era una via che si chiamava Anelli

518_via_anelli_corriere_della_sera_magazine_2004(1)C’era una via di nome Anelli, era a cubi verdi e beige rettangoli di vita, ghiaccioli colorati in estate e inverno di un cemento che ristora solo per quello che ci puoi trovare dentro: la vita quotidiana!
Cara via Anelli, non mi sono mai chiesta chi tu fossi, chi fosse quel signore, ma evocavi un libro che sapeva di avventura, di sfide impossibili, surreali … non perche’ anche tu fossi provvista di fatate magie, ma per darti un tono, importanza insomma, e il tempo te ne ha data eccome.
Negli intrecci di un quotidiano che puoi trovare ovunque il caos, che e’ stato attribuito come mostro emergente a questo luogo, altro non era che un normale passaggio di riti, abitudini, amori, bisogni, disastri o felicita’ di vite correlate allo scorrere del tempo, ai sogni, alle ambizioni. Al pensiero che non era il momento che sugellava la tua vita, ma la vita che attraversava il momento e apriva la porta a nuovi varchi … un passaggio.
Eri un ponte levatoio pronto alla difesa, ma anche una fucina di menti in ebollizione … dinamiche innovative ironiche spirituali incancrenite stupide distruttive, capaci di inventarsi il musicol piu’ irriverente della città. Stolto a volte ma degno dell’aura che gli era stata creata intorno … poi il tempo ti ha cambiata come succede per tante cose.
Non vedere mai il sole dalla tua finestra era davvero una seccatura.
Riflesso solo nell’atrio del cortile ti dava il senso del tempo che fuori decideva d’essere. Tu preferivi un occhiello che filtrasse dalle tende, e invece no.
Il sole cosi’ lo trovavi aprendo la porta quando gli studenti dell’appartamento di fronte bussavano per chiederti il sale per la pasta che avevano finito. Erano allegri “caciari”, ogni tanto musoni e scontrosi, impegnati nelle discussioni di ideali che li rendevano ancora piu’ belli e veri. Finiva che il contagio della loro spensieratezza dei loro problemi ti prendeva e ti univi a loro… alle loro utopie, alle spaghettate, alle loro chitarre, alle ragazze che erano ma non avevano, ai sogni di grandezza. E tutto diventava facile …anche innamorarsi! E le tante amiche che erano compagne di studio di memoria di ricordi lo sanno bene. E tu guardavi il sole sorgere attraverso loro.
Guardavi la luna attraverso Roxette dell’appartamento di fianco, prodiga di delizie al mattino e di sospiri audaci nella notte di sesso a ore, capace di non farti chiudere occhio ma di buttarti giu’ dal letto alle cinque per farti assaggiare la sua torta di mirtilli.
Dovevi avere voglia e, ogni tanto, stomaco ad ascoltarla quando era in vena di confidenze ma eri una famiglia allargata via Anelli, un mutuo soccorso tuo malgrado.
Guardavi le stelle negli occhi di Roberta innamorata della vita, del cinema, di Parigi, e che si trovava ad incappare nel batticuore di Antonio, operaio sindacalista della SAIMP della porta accanto, quando lei aveva occhi solo per Gianmarco, angelo biondo, cavaliere senza tempo, peccatore d’avidita’ ma che le regalava i sogni a cui aspirava. Poi scompare nel nulla … l’acqua santa che pensava altro non era che uno spacciatore e le meschinita’ un supruso a ogni suo pensiero. Allora Antonio. Ecco Antonio diventa la bevanda calda, il sospiro, la voglia che il provvisorio diventi realta’, che l’illusione abbia nel quotidiano una concretezza o forse rivalsa di se stessa.
Ogni porta apriva una storia, una meteora che avvinghia, che nutre, che delude, che da speranza. Nell’indifferenza d’obbligo di quartieri che sembrano disegnati ad arte per contornare i sobborghi fatti delle tinte neutre di banale e ordinaria abitudine, c’erano i fantasmi di chi li ha solo attraversati e oggi sa di poter ringraziare anche i disagi per quello che e’ ora.
Come potrei dimenticare i fratelli Bandiera, cosi’ li chiamavo io perche’ sfrecciavano con quella magnifica Citroen Pallas cabrio coi capelli al sole, tossici incalliti, sventura per se stessi ma impastati di una tenerezza inaudita quando invece tenevano tra le braccia i figli di Maria… forse perche’ a loro ormai gli abbracci non erano piu’ destinati ma il bisogno li aiutava a credere.
E le storie che erano capaci di imbastire da perfetti bugiardi a quei bimbi per farli mangiare, per farli addormentare, per farli giocare, per distrarli mentre la madre metteva ordine in cucina, tra i giocattoli … tra le scuse che raccontava a se stessa per un uomo che non c’e’.
Maria trova e racconta nei compromessi dignitosi, nell’umilta’ calcolata, quei sorrisi quel colore verde e beige anche tra cent’anni! Tra i ricordi dei figli che le fanno memoria dei giochi in cortile, delle corse disperate tra le siepi, i corridoi pieni di voci, la paura delle sirene, le facce che mutavano ad ogni stagione ma anche la strada che li ha portati ad essere uomini capaci e affermati.
Se un pezzo di cuore trova traccia nel sorriso di Said, nella gonna stretta di Romina, nel futuro avvocato che oggi e’ Marco, in Giovanni pediatra che nel praticantato trovava il modo di aiutare ogni bimbo in difficoltra’ senza chiedere nulla, cosa c’e’ di tanto scandaloso da non poter essere allineato con i ricordi di chiunque? Cancellata dalla necessita’ rimani, cara via Anelli, quell’abbrivio dolce che ha alimentato i cuori di tante anime.
Sparecchiata velocemente per l’arrivo di ospiti mai graditi, hai l’aspetto funereo dei bivacchi in disuso.
Hai chiuso le porte e le finestre, e il cemento … quel cemento murato non scalda piu’ nessuno, e nessuno ti rimpiange perche’ la vita è andata avanti e il passato ha lasciato alle spalle anche le storie piu’ belle.
Mentre quei cubi di ghiacciolo si squagliavano al tempo, non sei rimasta indifferente alle mille vite che hai nutrito, abbandonata alla grancassa dei pregiudizi.
Non passi innosservata nemmeno oggi che, stretta nella morsa del tuo nome, impalata li nel nulla, sei il fantasma di mille voci e avventure.
Cara via Anelli aspetto il tuo destino di domani, mentre il mio è già oggi.

Mariapia Sabbadin

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Chi è Alberto Buzzanca

507_via_anelli_corriere_della_sera_magazine_2004Nasce, a 23 anni nel ’92, l’impegno artistico di Alberto Buzzanca. E’ fotografo pubblicitario, collabora con agenzie, pubblica su riviste nazionali. Il soggetto preferito sono le persone: modelle in studio o immerse in suggestive location, ma anche uomini donne bambini ritratti nei reportages in giro per il mondo. Alberto Buzzanca lavora in digitale, tecnologia in cui ha creduto da subito e che aggiorna continuamente. Sul set, dove il soggetto e’ chiamato a dar vita emotivamente a una sorta di film in 9-10 quadri, si capisce subito che il fotografo e’ ispirato. Ma anche che quello non e’ il suo mestiere, e’ la sua vita. (www.albertobuzzanca.net)

Eredita dal padre, pittore visionario e vignettista pungente, l’armamentario per fotografare; ma forse molto di piu’. Nasce cosi’, a 23 anni nel ’92, l’impegno artistico di Alberto Buzzanca. Due vecchie reflex, gli obiettivi, la voglia di provare per gioco. Una passeggiata lungo il fiume, i primi scatti. Poi cascate di manuali, libri, riviste, la curiosita’ di imparare, capire come nasce la magia dei capolavori dei grandi.

Buzzanca capisce di non essere fatto per i paesaggi inanimati, che le sue foto devono vivere, emozionarlo ed emozionare. Arrivano i ritratti, le modelle. Poi i workshop, il mettersi in gioco. Fino al grande momento: abbandona il lavoro sicuro per la passione. Un atto di coraggio, un mix di consapevolezza e umilta’. Apre uno studio.

Lavoro con poche luci, spesso una sola- spiega- laterale, molto morbida, che da’ i contorni giusti, quasi fosse la luce naturale di una finestra.

E’ fotografo pubblicitario, collabora con agenzie, pubblica su riviste nazionali. Il soggetto preferito sono le persone: modelle in studio o immerse in suggestive location, ma anche uomini donne bambini ritratti nei reportages in giro per il mondo. Presi a distanza ravvicinata, con un 16 millimetri, perche’ per Alberto vale quel che diceva il grande Robert Capa: la foto non e’ bella se non ti sei avvicinato abbastanza. Bisogna saper entrare dentro le persone, le loro storie, con coraggio e umanita’.

In cinque secondi devo far capire che non sono un invasore, ma uno di loro. Lo stesso vale per la modella ripresa a distanza ravvicinata col 50 millimetri. Serve una forte empatia, deve sentire che si puo’ fidare e  solo allora uscira’ la sua personalita’.

Alberto Buzzanca lavora in digitale, tecnologia in cui ha creduto da subito e che aggiorna continuamente.

Sul set, dove il soggetto e’ chiamato a dar vita emotivamente a una sorta di film in 9-10 quadri, si capisce subito che il fotografo e’ ispirato. Ma anche che quello non e’ il suo mestiere, e’ la sua vita.

Roberto Brumat

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