Quel giorno Berto entrò in fabbrica prima del solito
Quel giorno Berto entrò in fabbrica prima del solito, aveva del lavoro arretrato e le consegne erano previste entro quella settimana. Si affacciò al reparto dove stava vicino al tornio nella produzione in linea; gli mancavano si e no 300 pezzi, la maggior parte del lavoro era stato fatto nel mese precedente. Poi il lavoro s’era fermato per quel problema organizzativo del reparto: il capoarea aveva voluto spostare per un po’ Berto alla fresa ed aveva messo al tornio quel moldavo che lavorava ad oltranza e non si fermava mai; in realtà si era infortunato dopo pochi giorni, una cosa leggera, ma che gli aveva impedito di essere efficiente. Quando Berto poté tornare al tornio, dovette riguadagnare il tempo perduto e fare gli straordinari.
La sera prima aveva fatto molto tardi: con il Cicala, così soprannominato perché vestiva sempre in nero col gilet, maglione – o camicia d’estate – e jeans dello stesso colore, e poi con Giuliano, detto Benettòn perché lavorava a Ponzano presso la nota azienda e la Vera che era l’unica ragazza che usciva con loro: era stata qualche tempo col Cicala, ma poi lui era diventato gelosissimo e non la faceva più uscire nemmeno per andare a ballare con le amiche. Erano andati al pub El sombrero sulla strada per Treviso ed avevano bevuto fino a tardi. Berto poi aveva accompagnato gli amici a casa ed aveva fatto tardi col Benettòn a parlare di ragazze e di sogni: aveva una storia seria con una tosa foresta, una di piazza Armerina che si era trasferita al nord con la madre per studiare all’università solo che poi l’aveva dovuta lasciare per andare lavorare nel bar della piazza Maggiore. Lucia avrebbe voluto trovare un buon partito, sposarsi, fare una famiglia e dei figli; Berto pure lo avrebbe voluto, ma più avanti, c’era tempo ancora… E poi non aveva che pochi risparmi perché lavorava da pochi anni soltanto e stava ristrutturando una parte della casa dei suoi giù verso la bassa trevigiana, dove ancora abitavano in una piccola azienda agricola con poca terra e qualche animale nella stalla.
Berto era un tipo un po’ sognatore: a volte si metteva nel solito angolo dietro la casa a guardare il tramonto oppure di notte la luna piena quando d’inverno stava ad aspettare che Lucia chiudesse il bar per farle uno squillo e darle il saluto della buonanotte. Pensava allora a cosa avrebbe fatto da grande: gli sarebbe piaciuto restare nell’azienda del padre a lavorare la terra, avrebbe voluto comperare altra terra e poterla coltivare… pareva un ragazzo di altra epoca, di quelli che si trovavano negli anni settanta o anche prima: una specie in estinzione… Suο padre però aveva dovuto vendere parte della terra e degli animali dopo quei debiti che aveva contratto avventurandosi in investimenti sbagliati con le famose quote latte…non l’avesse mai fatto…
Lui era finito in fabbrica, la scuola l’aveva conclusa a stento, ma tanto quel diploma non gli serviva ed un posto da ragioniere chissà se l’avrebbe poi mai trovato…In fondo in fabbrica guadagnava quello che gli bastava per portare fuori Lucia il sabato sera o portarla al mare qualche domenica d’estate o in montagna d’inverno…
Quando entrò in fabbrica quella mattina aveva ancora un po’ d’ebbrezza della sera prima: era stata una bella serata come spesso avveniva il giovedì. All’entrata passò nello spogliatoio dove indossò la tuta e le scarpe che erano obbligatorie; le cuffie non le voleva, gli davano noia e preferiva almeno ogni tanto scambiar due battute con Gigi che stava alla macchina vicino a lui. Quando arrivò alla sua postazione al tornio, si mise subito al lavoro.
Pensava che avrebbe potuto lavorare in fabbrica ancora per qualche anno, mettere da parte qualcosa per lui e la Cìa, poi finire di tirar su quelle poche stanze in più nella casa dei suoi e stare con la sua ragazza. Si immaginava a giocare coi suoi figli davanti casa come aveva fatto lui da bambino, quando gli piaceva rincorrere le galline o liberare i conigli tra l’erba col rischio poi di prendersi quattro scappellotti da sua madre. Ogni volta che gli tornavano alla mente queste scene, si emozionava così tanto che assorto tra i suoi ricordi non sentiva più il rumore della fresa lì vicino, né il suono martellante della pressa o lo strepito cigolante del muletto. Gli stava succedendo la stessa cosa anche adesso…
Stava lavorando con la solita lena di sempre, ma era più distratto delle altre volte, sembrava guardare fisso il tornio, in realtà non lo vedeva; immaginava davanti a sé la corte di casa, il sole che picchiava forte sui campi di frumento all’avvicinarsi dell’estate e gli pareva di sentire quell’odore di terra secca che a giugno inoltrato emana dai tratturi lungo i campi già biondi di messi: tutto avvenne tanto all’improvviso che i suoi colleghi se ne accorsero solo quando lo videro a terra. Non aveva visto, indossando la tuta, che il polsino era allentato e che avrebbe rischiato di impigliarsi nel tornio sul mandrino in rotazione: così infatti capitò all’improvviso e fu un attimo, un secondo e si ritrovò con la mano nel tornio… le urla che gettò coprivano i rumori intorno, rumori che lui non sentiva già più e i compagni di reparto si precipitarono su di lui a bloccare la macchina… le protezioni che di solito erano necessarie erano da qualche giorno fuori uso e non si sarebbero dovute usare le macchine eppure per via delle consegne urgenti e di tutto il resto Berto era lì… adesso con la mano penzoloni e il sangue che schizzava da tutte le parti…Berto perse quasi subito i sensi ed il rischio peggiore era che se non si avvisava subito l’ambulanza perdesse troppo sangue. Furono i 5 minuti più lunghi anche per i compagni che quando lo videro steso sulla barella non trattennero le lacrime, specialmente Gigi che gli era vicino di macchina da un bel po’ tempo e gli era stato mentore per il primo periodo.
All’ospedale di Treviso l’operazione fu lunghissima: la mano destra sarebbe rimasta compromessa per sempre. I proprietari e i capireparto subirono un processo e risultarono colpevoli, ma la colpa più grande fu poi quella che pesò su Berto per il resto degli anni…la Cìa lo lasciò: disse che non poteva stare con uno che avrebbe perduto il lavoro, un invalido a vita…insomma fu una delusione talmente grande che Berto non volle nemmeno più saperne per un po’ di tirar su quelle quattro pareti.
Berto rimase a casa per parecchio tempo, tornò ad apprezzare il verde dei campi dietro casa, a guardare le stelle verso nord nelle serate d’inverno, a seguire suo padre nel lavoro della stalla; ora la fabbrica per lui è solo quel grande caseggiato grigio di fronte al supermercato dove lavora al controllo furti…
Bruna Mozzi
Leggi Cara Fabbrica/Storia di Sante; Gustavo e il succo d’uva
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Perché “racconti in fabbrica”? no, non li scrivo nelle pause di lavoro ad una pressa o ad una macchina da cucire, ma seduta davanti al mio PC nello studio di casa… eppure col pensiero costantemente rivolto a tutto quanto la fabbrica rappresenta: lavoro e dignità per chi in essa negli anni passati, Settanta-Ottanta, ha visto il riscatto da una condizione di povertà e di emarginazione, si pensi ad un Nordest prima contadino e poi locomotiva dell’Italia – o a Terni o a Taranto o a Bagnoli e alla grande industria di Stato o anche alle grandi fabbriche tra Lombardia e Piemonte, come la grande mamma FIATche ha motorizzato l’Italia. Ma anche alla fabbrica che rappresenta la fatica, il sudore, il quotidiano rischio della vita, l’ammalarsi di cancro ai polmoni e morire a forza di inalare amianto o diossina; la fabbrica dei licenziamenti, delle lotte degli operai e talvolta dei quadri, la fabbrica dei cassintegrati, degli occupanti più duri che si incatenano ai cancelli per mantenere il loro posto a 1000 euro al mese.
Il lavoro che talvolta uccide, ma che in altre occasioni genera incontri, intreccia vicende, fonde assieme sentimenti e emozioni. Dignità e vergogna, orgoglio e paura…a vederla in letteratura, la fabbrica è questo: poesia del vissuto, storie del quotidiano immaginate o profondamente vere per ricordare che la nobile parola su cui si fonda la nostra Repubblica – lavoro – non può essere solo quel po’ di inchiostro che qualcuno vorrebbe buttato a caso ad imbrattare un foglio di carta, ma un ideale da perseguire e assicurare ai nostri figli.
Non solo parole, anche foto: nello stile che piace a me e che da un po’ mi spinge a riflettere.
Bruna Mozzi
Foto di Danilo Cazzaro
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