L'agronomo del Sud Sudan nel campo profughi

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Stivali da pesca di gomma nera, camminiamo su un verde tappeto d’erba alta 30-40 centimetri, il fango sotto i nostri piedi si squaglia come se camminassimo sul pongo, gli alberi, radi nelle vicinanze, più fitti in lontananza, fra noi e loro solo una piatta, verdissima prateria allagata. Questo è il Sud Sudan durante il periodo delle piogge, acquazzoni ogni 2-3 giorni e sole che batte forte gli altri, facendo evaporare l’acqua da pozzanghere di fango grigio e acquitrini popolati da migliaia di rumorose rane gracidanti. Michael sta in piedi a braccia incrociate e parla ai ragazzi, tutti rifugiati, membri del comitato agricolo del campo profughi di Pariang, popolazione solo 1200 quasi tutti studenti, il campo è una filiazione per studenti delle superiori del ben più grande campo di Yida, a pochi chilometri a nord, verso il confine, popolazione 65mila ed in continua crescita. Yida e’ come un capoluogo di provincia sorto in poco più di un anno a causa dei combattimenti fra esercito regolare sudanese e ribelli dell’ Esercito Popolare di Liberazione del Sud Sudan (SPLA) che ha uno dei suoi centri sulle montagne Nuba.

Michael e’ un agronomo sud sudanese ma ha studiato in Uganda, qualche mese di esperienza con una ong locale in Sud Sudan e poi l’occasione di lavorare con una ong internazionale. Nel frattempo ha anche scritto dei discorsi per una parlamentare del nuovo governo del Sud Sudan ma è rimasto scandalizzato dalla mancanza di preparazione della parlamentare, la quale, afferma, legge discorsi che non capisce e se ne prende tutti i meriti, sveglio ed orgoglioso Michael. Lo chiamo Michael, ma forse sarebbe meglio chiamarlo Saviour – “Salvatore”, come fanno gli amici e i familiari, 23 anni, poco più di un metro e settanta, corporatura snella, non molto muscolosa ma piuttosto nervosa, un sorriso largo, aperto e lo sguardo a volte timido a volte furbo. Ora Saviour insegna ai rifugiati come coltivare questa terra difficile, argillosa ed allagata, ma da piccolo, da bambino, è stato un rifugiato a sua volta. Originario dello stato dell’ Equatoria Orientale, al confine con Uganda, Kenya ed Etiopia, si è ritrovato a crescere in uno dei tanti campi rifugiati per sud sudanesi ospitati dall’Uganda. A suo dire, fra tutti, lo stato più accogliente verso i sud sudanesi in fuga dal conflitto civile durato dal 1983 al 2005.

E’ una nera notte stellata di Bentiu, fangosa e piena di insetti ronzanti nell’aria quando Saviour mi racconta come abbia avuto quel nome (gli altri sono Selle, Faustus e Michael) da un dottore locale amico di famiglia, per lui, i genitori prevedevano una carriera da medico, in particolare anestesiologo, ma fin da adolescente lui aveva deciso di diventare agronomo, e così è stato. Fin dalle elementari ha dato prova di essere uno studente sveglio, brillante e dotato, al di sopra della media, tant’è che lui ed un suo amico, che lui definisce “genio”, in quanto più intelligente di lui, in soli 4 anni hanno portato a termine le scuole elementari, che ne richiederebbero 7. Questo essere continuamente promossi a classi superiori aveva perfino suscitato perplessità da parte della mamma, preoccupata che il figlio crescesse troppo in fretta e sovraccarico di pressione, lezioni e compiti da portare a termine. Saviour è uno dei tanti africani cresciuto quasi esclusivamente dalla propria madre, un padre c’è, dice, da qualche parte in Equatoria Orientale, a volte si fa sentire, ma molto di rado, impegnato fra lavori e altre vite, con altre mogli e altri figli, a tal punto da dimenticarsi della prima moglie e dei figli avuti con lei. La mamma di Saviour, che lui adora, ha fatto una brillante carriera come segretaria di ong e agenzie bilaterali e delle Nazioni Unite attive nei campi rifugiati, potendo contare solamente sul suo stipendio da segretaria ha già portato 3 figli, tutti maschi, alla laurea, ed il più piccolo sta per terminare la scuola secondaria, andrà anche lui all’università l’anno prossimo. Saviour dice che la mamma non ce l’avrebbe mai fatta a mandarli tutti a scuola se il secondo figlio, particolarmente intelligente, non avesse ricevuto una borsa di studio dal governo sud sudanese per studenti particolarmente meritevoli. Infatti, diversamente da come accade spesso in Africa, il fratello più grande, ormai un uomo d’affari nell’ est dell’Uganda, non si è mai sentito in dovere di aiutare economicamente i fratelli minori, perciò il carico è ricaduto interamente sulla madre anche per i 3 figli successivi.

Saviour si illumina quando parla della mamma, ed è contento di andarla a trovare durante le vacanze che stanno per cominciare. La mamma ora vive lungo il confine fra Uganda e Sud Sudan e vive gestendo i terreni che ha comprato e le case che ha costruito nel tempo con i risparmi del suo lavoro da segretaria. Saviour è consapevole di essere stato cresciuto da sua mamma e questo influenza anche il suo approccio al lavoro, osservandolo all’opera, l’ho sentito molte volte riprendere i suoi colleghi o i ragazzi coinvolti nel progetto che avevano trattato male o comunicato in maniera offensive con le ragazze coinvolte nei nostri progetti, Saviour non tollera di veder trattar male le donne e dice, candidamente: “In fondo siamo tutti figli di una donna, veniamo da una donna, perché dovremmo trattarle male?”.

Dopo due birre, tiepide perche il generatore non funziona bene, nella penombra di una serata in un bar di Bentiu, lasciata da parte la routine lavorativa, ci lasciamo andare anche a qualche discorso un po’ più intimo. Saviour ha una ragazza, stanno insieme da 3 anni e davvero la considera la ragazza della sua vita, sembra innamorato, ed è convinto che si sposeranno, quando lei avrà finito gli studi universitari. Anche la ragazza studia a Kampala ed è al suo primo anno e sarà la seconda persona che andrà a trovare durante le sue vacanze. Mi dice di essere un po’preoccupato perché lei non va d’accordo con il suo gruppo di amici maschi e quindi sarà difficile riuscire a vedere tutti nei pochi giorni che trascorrerà a Kampala. Ha piani per loro come coppia e dice che sta risparmiando per il futuro e per una futura vita insieme.

Per molti aspetti la vita di Saviour potrebbe essere considerate “normale” dal punto di vista di un europeo: l’università, un buon lavoro, una ragazza che ama…tutto questo cambia all’improvviso  quando si toccano i ricordi d’infanzia e racconta come da rifugiato nei primi anni si sentisse addosso l’etichetta di “diverso” in quanto sud sudanese rifugiato in Uganda. Aggiunge che comunque l’integrazione in Uganda è stata più facile per lui che per i suoi amici che sono finiti in Kenya o in Etiopia. L’ apparente normalità della vita di Michael si infrange quando racconta che a 7-8 anni dovendo recarsi a Kampala per frequentare le scuole elementari doveva attraversare un territorio controllato dal famigerato Lord Resistence Army – Esercito di Resistenza del Signore – di Joseph Kony. Per percorrere 2-300 chilometri dice che ci si impiegava tutto il giorno. Dapprima c’era la raccolta di tutti gli autobus e di tutti i passeggeri in un unico punto per formare una carovana, seguiva un pattugliamento dell’esercito, che con mitra spianati percorreva il tratto di strada in perlustrazione avanti ed indietro. Dopo aver avuto il nulla osta dell’esercito la carovana procedeva lentamente attraversando il macabro regno di Kony. Saviour dice che  sull’autobus nessuno parlava e c’era un silenzio surreale rotto solo dal borbottio del motore e dai cambi di marcia dell’autista; per 2 o 3 ore sull’ autobus nessuno parlava, beveva o mangiava, nessuno faceva nulla, la mente di tutti monopolizzata da un unico pensiero: il terrore di un assalto dei ribelli, spesso drogati, del  Lord Resistance Army a caccia di soldi, cibo e di qualsiasi cosa che avesse un minimo valore e pronti a far fuoco per un nulla o anche solo per incutere ulteriore terrore. Racconti di tutti i giorni da un’ Africa sospesa fra normalità e tragedia, donne coraggiose e figli orgogliosi, discriminazione e fulgidi esempi di forza al femminile, gente lavoratrice e onesta e bande armate criminali, rifugiati di guerra e accoglienza di chi ha non ha niente da parte di chi ha poco. Tutto questo e molto di più è l’Africa che sto vivendo, questo continente contraddittorio, affascinante, assolutamente imprevedibile ma sempre vivo e ricco di sorprese e scoperte, soprattutto umane.

Stefano Battain

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