Storia d'amore all'ombra del Vajont

FacebookTwitterLinkedInWhatsAppEmail

Cinquant’anni dopo: il Vajont è nella nostra memoria, come abbiamo scritto. Ci piace però ricordare quel giorno in un modo particolare: oggi il racconto di Cara Fabbrica è ambientato proprio in quei posti, su quei luoghi. Ed è una storia d’amore, di speranza. 

Marietto girava da anni con la Vespa  di suo fratello, dopo che lui se ne era andato in Germania a lavorare nella gelateria dei Fabris; faceva dannare sua madre, correndo a tutta birra per le strade della periferia del paese. Andava su e giù per la montagna sulla strada della diga fino a Erto, quella vecchia strada che portava fin su a Cimolais e costeggiando il torrente Cimoliana arrivava a Cellino. Lavorava lì alla segheria degli Anzolut che abitavano però a Longarone nella parte bassa e che dopo la maledetta sera del 9 ottobre di alcuni anni prima avevano spostato lì la segheria. Una storia segatristissima – quella del Vajont –  capitata per colpa degli uomini di giù della pianura e della laguna che lì sulle montagne erano saliti per far soldi, altro che per darci la luce e scaldarci.

In segheria amava starci d’estate, quando col caldo secco della montagna a tagliar la legna e piallare le assi e farne pacchi da 30/40 e caricarle sui camion per mandarle in consegna, si sudavano sette camicie, ma “tutta salute” diceva e la sera poi rinfrancava corpo e anima all’osteria dei Bordignon, dove la mescita era di prima qualità e non mancavano mai gli amici per far due chiacchiere e parlar di tose e di come lo faceva bene la Pina o la Nuccia o delle ragazze di Cortina.

Il lavoro non mancava perché il legno di lì andava bene per l’esportazione e poi qualche volta si aggiungevano anche delle ordinazioni dai posti più vicini nel distretto del legno in Friuli, verso Gemona e Osoppo e la Bassa Veronese, in particolare Cerea e la zona del mobile di arte povera e di (finto) antiquariato. Coi soldi che aveva risparmiato da qualche tempo avrebbe voluto prendersi la moto, una di quelle giapponesi che vedeva in Tv o sulle riviste che amava sfogliare o che ammirava sfrecciare in paese, quando le domeniche estive passavano centauri avvolti nelle tute in pelle fascianti e colorate e parevano schegge di colore spruzzate sulla tela verde dei versanti della montagna.  Dalla segheria a casa sua saranno stati sì e no 25 km e con la vespa d’inverno faceva a tempo a raffreddarsi per bene.

sega2Ma da qualche tempo, almeno due mesi, quelle scorpacciate di gelo non gli dispiacevano perché dopo a casa di sera lo veniva a trovare la Pina e facevano all’amore in camera, ché tanto sua madre era ormai vecchia e non diceva nulla. La Pina salutava dopo aver bevuto il caffé con la Giovanna  – la vecchia mamma –  fingendo di andarsene verso le 22 e poi invece saliva in camera: ed erano nottate d’amore e di passione tanto che poi crollavano entrambi a dormire a notte fonda e la Pina restava sino a mattina. Alle sette sgattaiolava via prima che si svegliasse la siora Giovanna e poi andava a casa sua: viveva sola in paese e faceva la babysitter il pomeriggio. La mattina studiava da estetista e qualche volta alla settimana scendeva a Belluno per qualche lezione o per prendersi un libro. Marietto gli passava volentieri qualche soldo, tanto per ora così gli andava bene e chissà mai che non avessero potuto prendere casa assieme un bel giorno.

Le giornate passavano veloci e spensierate da quando c’era la Pinuccia, lui la chiamava così col diminutivo perché per la statura limitata gli ricordava una zia, sorella della mamma che era cresciuta poco e non era alta più di un metro e mezzo. Qualche volta nei pomeriggi festivi o il sabato, giorno in cui la segheria era chiusa, se lo chiamava uno degli Anzolut, lui andava a lavorare e si prendeva dello straordinario che gli faceva comodo.  Marietto riuscì in breve tempo ad ordinarsi la moto e quando gli arrivò, il luglio di qualche estate fa, si presentò in paese gongolante di gioia ad offrir da bere a questo e quest’altro senza badare a spese, gli amici lo invidiavano e dicevano che tutte le fortune erano sue e che adesso doveva portar la Pina a fare un giro su fino a Cortina e offrirle il gelato nella piazza centrale. E lui la domenica seguente ci andò; fecero due passi in centro lungo il Corso, presero il gelato e poi inforcarono la moto e giù di nuovo verso Longarone, sfrecciando sulle curve e rasentando l’asfalto col ginocchio. Pina non aveva paura e lui godeva nel fare queste bravate.

Non tornarono però a casa: lui le propose di passare alla segheria su a Cellino, perché c’era un posto al coperto di cui aveva la chiave e dove avrebbero potuto starsene un po’ in intimità: a quell’ora e di domenica non c’era certo nessuno, era al sabato che poteva capitare di trovare Carletto detto Toti a rimestare tra gli scarti per far su un po’ di materiale dasegheria ardere per accendere la stufa, ma era uno innocuo, nel caso li avesse visti non avrebbe detto nulla a nessuno. A volte Toti lo aveva aiutato durante i periodi di grosso lavoro soprattutto di imballaggio e di spedizione delle assi di legno; così a lavorare assieme si faceva prima e non si facevano aspettare le consegne ai clienti buoni. Erano diventati buoni amici, naturalmente come lo si può essere in una condizione così diversa: Toti era così da quando, a dieci anni quella volta della frana del Monte Toc e del disastro era in casa ed era stato trascinato giù dal letto dall’onda senza nemmeno rendersene conto. Si era salvato, unico di tutta la famiglia, padre, madre e sorellina di due anni erano scomparsi nel fango e nella melma, strappati con violenza anche loro dal tepore del letto in quella serata di inizio ottobre. Era rimasto un po’ rallentato nei ragionamenti e nei discorsi, ma sempre pronto a dare una mano in tutto.

Quando arrivarono alla segheria, Marietto e la Pina erano già accaldati dall’ebbrezza del giro e dalla voglia che li aveva presi perché sapevano che avrebbero potuto di lì a poco fare all’amore: era sempre stato così tra loro e Marietto era entusiasta che la Pina fosse una ragazza così calda, pareva fosse proprio la sua storia importante, quella con la Pinuccia. Arrivati al cancello della segheria, aprirono il lucchettone, Marietto parcheggiò la moto dietro la catasta di assi, in modo che se anche qualcuno fosse transitato sulla strada o si fosse fermato sul piazzale davanti al cancello non potesse scorgerla.

E anche quella sera la passione fu profonda e i loro corpi si fusero nell’amplesso caldo e morboso dei ventenni. Mentre erano presi dal piacere dell’abbraccio e dei baci, non si erano però accorti di alcuni rumori che provenivano dalla parte centrale della segheria vicino alle macchine tagliatrici e dietro la catasta di assi di scarto accumulate il decatastatorevenerdì, quelle che di solito venivano portate fuori e spedite il lunedì mattina. Quando si calmarono e il piacere era ancora diffuso leggermente nei loro corpi, dopo aver placato il desiderio, sentirono il rumore che continuava a provenire alla loro destra, si guardarono stupefatti e Marietto disse: “Stà qua che vago vedare cossa che ghe xè! Magari i gà assà impisà na macchina; seto che saràche che tira dopo el paròn…!”. E rivestendosi in fretta dopo aver raccattato i vestiti, sgattaiolò fuori dal deposito, procedendo verso la segheria centrale. Nel frattempo Pina si era girata dall’altra parte e, come faceva di solito, con il pollice destro alle labbra, si era appisolata felice per l’amore.

Marietto intanto era giunto all’interno della segheria e si avvicinava al posto da cui sembravano provenire i rumori: con grande sorpresa vi trovò un ragazzo sveglio, pieno di vita nel suo corpicino esile che si sarebbe detto malnutrito a guardare le sole gambe, sulle quali poi invece poggiavano un busto sorprendentemente robusto e il collo ben tornito che finiva poi in una chioma di capelli ricciuti e biondissimi. Quando Marietto lo vide, rimase sorpreso perché si era incastrato nell’introduttore automatico alle multilame: chissà da quanto tempo era lì. Non era ferito e nemmeno si lamentava; dimostrava un coraggio di ferro a stare lì da solo. Se non fosse arrivato Marietto, forse sarebbe stato lì senza liberarsi fino all’arrivo degli operai la mattina seguente. E avrebbe dovuto certo spiegare l’accaduto al paròn e sarebbe stato punito. Marietto liberò subito il ragazzino e lo fece sedere sulle assi lì vicino, pronte per la scortecciatura e il successivo taglio. Gli chiese come mai fosse lì e lui non rispose nulla, anzi si era agitato ad esser stato sorpreso e pareva che si mettesse a piangere da un momento all’altro; Marietto lo sorresse e gli disse che stesse lì tranquillo e pensava di andare a chiamare la Pinuccia ché forse con una donna il bambino si sarebbe calmato.

Quando tornò con lei, il ragazzo non c’era più; evidentemente era scappato e la Pina che era ancora mezza addormentata e non capiva bene perché fosse lì, gli disse che evidentemente si era inventato tutto e che lei non aveva sentito nessun rumore; era meglio tornarsene a casa perché a quell’ora la madre di Marietto – diceva – si sarebbe preoccupata.

Il giorno dopo arrivò la notizia: a Erto, vicino alla diga sul piazzale del parcheggio dei visitatori, era stato trovato un bambino sporco di segatura vicino alla sua bicicletta, con uno zaino e dentro due pezzi di legno che evidentemente erano quelli che aveva rubato alla segheria di Cellino: diceva che voleva andarli a mettere sul monte Toc così non sarebbe franato mai più. Anzi aggiunse che da grande avrebbe voluto costruire lui una diga robusta come quella del Vajont di cui tutti parlavano per portare elettricità e calore alla gente di montagna, ma che l’avrebbe costruito sul posto giusto, dove la roccia era roccia e la montagna solida. Ne aveva sentito parlare spesso dai grandi e la montagna era divenuta per lui un essere gigantesco da fermare con tutti i mezzi possibili.

Molti rimasero commossi dall’episodio. Dopo un po’ si seppe che era il figlio di una ragazza un po’ sbandata di troncatoreCellino cui i servizi sociali in passato avevano già sottratto il ragazzo, ma in quei giorni lei lo aveva portato a casa per le vacanze e lui aveva pensato bene di scapparsene con la biciclettina dopo una sfuriata terribile di lei per un nonnulla. Marietto ne ebbe compassione e decise di ospitarlo per qualche giorno prima di ridarlo ai servizi sociali di Belluno. La Pina ne era gelosissima, ma poi col tempo si affezionò a Giovannino ed ogni tanto andavano a prenderlo a Belluno per fargli fare un giro in moto o offrirgli un gelato.

Ora Giovannino è un uomo adulto, fa l’ingegnere e costruisce dighe in giro per il mondo; sul tavolino dello studio ha ancora quei due pezzi di legno che voleva usare per puntellare il Toc. Marietto è invecchiato nel lavoro in segheria ed ora ne è diventato proprietario; la Pina dopo un anno lasciò il centauro di Longarone ed ora ha un centro di estetica a Belluno e, se le va di prendersi qualche pausa o di vedere nuovi posti, segue suo marito nei viaggi di lavoro: da un paio d’anni infatti è moglie felice di quel Giovannino, piccolo-grande ingegnere.

Bruna Mozzi

(foto di Danilo Cazzaro)

Leggi tutti i racconti di Cara Fabbrica

Ti potrebbe interessare