Tra i profughi siriani a Shatila

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Donne siriane rifugiate in Libano, gennaio 2013Il campo di rifugiati palestinesi di Shatila è un quartiere di palazzine diroccate di cemento, accatastate l’una sopra l’altra, senza né ordine né criterio; al di fuori della strada principale, ci sono solo vicoli strettissimi in cui a malapena s’incrociano due persone a piedi. Shatila è un labirinto di frustrazione e di miseria, in cui è facile perdersi. Il cielo è un’immensa cappa di grigio da cui sgocciolano il tedio e la malinconia.

Sono venuto a Shatila per intervistare alcune delle famiglie di palestinesi siriani che sono scappate di recente dalla Siria. Nel fare i miei piani però non ho tenuto conto del fatto che tre giorni fa l’opposizione ha preso il controllo del campo di Yarmouk a Damasco, l’esercito del governo ha iniziato a bombardarlo, e centinaia di famiglie palestinesi sono fuggite in una volta sola in Libano.

Nella prima visita tutto va liscio. E’ una famiglia di origini popolari, in condizioni modeste ma non in miseria; parlo con una signora di mezz’età e con una delle sue figlie adolescenti; sono già in Libano da più di quattro mesi, abitano accanto a casa di sua sorella, fanno fatica a pagare l’affitto e le spese, ma almeno si sentono più al sicuro di quando erano a Damasco.

La seconda visita dura solo un paio di minuti. Mi ritrovo di fronte a quindici o venti persone sedute tutte a quadrato, strette strette, sui divani del salotto; una donna grida, un’altra piange, un uomo tenta di parlare al telefono con suo padre, rimasto bloccato a Damasco. Sono arrivati solo l’altro ieri. La metà della famiglia è ancora a Yarmouk e non riesce a uscirne. Hanno appena saputo che una delle loro case è crollata sotto le bombe. Resto ammutolito. L’essenza della guerra è tutta concentrata qui dentro, davanti a me, in questa casa. Non possiamo fare niente per loro, non ha senso chiedergli nulla per noi. Mormoro due frasi di circostanza, che suonano vuote tanto alle mie orecchie quanto alle loro, e prendo commiato.

Poco più avanti sulla stessa strada trovo un’altra famiglia palestinese siriana, anzi tre piccole famiglie apparentate, ridotte a vivere insieme in un piccolo bugigattolo. Nel loro minuscolo salottino inizio a parlare con le tre padrone di casa. I toni sono abbastanza tesi: sono nervose e un po’ sospettose. Sono arrivate in Libano soltanto da poche settimane e non hanno ricevuto quasi nessun aiuto. Stamattina sotto la pioggia sono andate di fronte alla sede dell’UNRWA* per protestare contro la mancanza di assistenza. Hanno già parlato con vari giornalisti. L’intervista procede regolarmente, ma mi sento leggermente a disagio, ho l’impressione di essere di troppo.

Di colpo entra un uomo, parla con voce concitata: “C’è stato un massacro a Yarmouk, accendete la televisione, presto!” Le signore dimenticano la nostra conversazione e accendono la televisione. Il notiziario parla proprio dell’esodo dei palestinesi siriani e trasmette una dichiarazione del presidente Mahmoud Abbas**, mentre i titoli in basso riportano la notizia di nuovi bombardamenti a Yarmouk. Nessun accenno a un massacro. Dopo qualche minuto abbassano il volume e riprendiamo a parlare; ma all’improvviso una delle donne inizia a gridare, in lacrime: “I miei figli sono là dentro! E c’è stato un massacro! I miei figli sono lì, a Yarmouk…” Un’altra signora cerca di consolarla: “Non ti preoccupare, basta che muoiano tre persone perché parlino di un “massacro”, di sicuro i tuoi figli stanno bene, tranquilla…”

Sono davvero di troppo. Oggi non ascolto i racconti di disgrazie passate; oggi assisto alla tragedia in diretta. E’ l’assurdo teatro della guerra e della miseria. Una parte di me mi sta dicendo di alzarmi e levare il disturbo, ma un’altra parte mi spinge a restare: sono venuto proprio per testimoniare su queste situazioni. Anche le mie interlocutrici sembrano esitare: la mia presenza forse le esaspera, ma sentono il bisogno di sfogarsi con qualcuno. La conversazione continua in maniera confusa, tra risposte ragionate, voci irritate, lamentele, grida, vociare di bambini… non è più possibile seguire un filo logico, trattare un argomento preciso… e il registratore è sempre in funzione, appoggiato al suolo, quasi dimenticato.

Entra di nuovo lo stesso uomo, la stessa voce concitata annuncia: “Stanno distribuendo delle coperte, venite!” Dimentiche di tutto, le donne si alzano dalle loro stuoie ed escono in strada sotto l’acquazzone. Resto praticamente solo in casa loro; rimane soltanto un’anziana signora seduta in un angolo su una seggiolina. Parliamo da soli per qualche minuto. Infine le tre donne ritornano a mani vuote: le coperte erano finite… ritornano ma restano all’ingresso, non si siedono più accanto a me.

E’ tempo di andarsene. Parto da solo a piedi, sotto la pioggia, saltellando per evitare le pozzanghere, e mi allontano a casaccio per le viuzze strette e ingombre, fino all’uscita del campo, attraverso un mercato umido e fangoso, alla ricerca di un taxi impossibile da trovare. Pioggia su pioggia. Ingorghi su ingorghi. Beirut è congestionata fino a scoppiare. Passo da un taxi collettivo a un altro, con i vestiti bagnati e i capelli fradici, pensando e ripensando a quanto ho visto e sentito. L’umidità s’infila sotto le ossa fino alla mente e al cuore. Non riesco a smettere di pensare al campo di Yarmouk, in cui non sono mai stato, e che a quanto pare era un quartiere normale, vivibile e carino, e che adesso è zona di scontri, è sotto le bombe, e non sarà mai più come prima.

*L’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (United Nations Relief and Works Agency).

**Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), con sede a Ramallah, in Cisgiordania.

(racconto di F.D. del 19/12/2012)

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