#Alabanda5: Una lingua piena a metà

 

Maddalena Fingerle, Lingua Madre, Italo Svevo 2021, pagine 189, Euro 17

La trama “esteriore” di Lingua Madre – il romanzo d’esordio della bolzanina Maddalena Fingerle vincitrice del “Premio Calvino” – si può raccontare in modo sintetico. Paolo Prescher è un ragazzo di circa vent’anni che vive con crescente inquietudine la sua collocazione all’interno del contesto familiare, all’interno della sua città, e soprattutto è ossessionato da quelle che lui chiama le “parole sporche”, vale a dire tutte quelle espressioni che non intendono ciò che viene detto, che suonano perciò false, torbide, rovinate da associazioni mentali improprie, fino ad assomigliare ai “funghi marci” che si sfarinavano sulla bocca di Lord Chandos, il protagonista del famosissimo racconto “afasico” di Hugo von Hofmannsthal. Dopo la morte del padre, per sottrarsi a questa condizione di complessiva sofferenza, decide di lasciare Bolzano e si trasferisce a Berlino, vietandosi di parlare la sua madrelingua (che è l’italiano). Berlino e il tedesco standard sembrano dargli provvisorio sollievo. Nella capitale germanica Paolo conosce anche l’amore (grazie ad una ragazza milanese, dal curioso e leibniziano nome di Mira di Pienaglossa, cioè lingua piena, forse addirittura lingua incinta…). Dall’amore sboccia poi una relativa riappacificazione con l’italiano e, per l’appunto, una gravidanza accolta con titubante fiducia dai due. La coppia pensa allora di tornare in Italia, a Bolzano, dove la famiglia del ragazzo può garantirle il sostegno di cui ha bisogno per l’immediato futuro.

Questa, in estrema sintesi, la trama “esteriore”. Il libro, però, è attraversato anche da una trama “nascosta” che essenzialmente coincide con il monologo interiore di Paolo, ripetendo e variando in modo ossessivo il tema della sua stessa ossessione – qui si manifesta anche un tratto mitteleuropeo della scrittura di Fingerle, molto influenzato dalla prosa di Thomas Bernhard, al quale fanno da contrappunto accenti malerbiani, più leggeri e sperimentali, soprattutto nella prima parte –, vale a dire la paura, anzi la fobia nei confronti di un linguaggio incapace di attingere la realtà, di nominare le cose in modo trasparente e diretto. Sulle cause di questo trauma originario si possono avanzare diverse interpretazioni. Il rapporto problematico del protagonista con le parole scaturisce infatti sia dall’essere figlio di un padre divenuto a sua volta progressivamente afasico (e alla fine addirittura completamente muto, preludio di una definitiva autocancellazione esistenziale), sia da un contesto ambientale (quello bolzanino) nel quale la comunicazione non può mai fluire spontaneamente, perché inibita e costretta a posizionarsi secondo codici che hanno anche una valenza fortemente istituzionalizzata (ad esempio l’obbligo del bilinguismo per ottenere un lavoro in ambito pubblico).

Non è facile esprimere un giudizio netto su questo libro. Alcuni passaggi lo renderebbero senza dubbio riuscito (penso soprattutto alle pagine centrali, quelle “berlinesi”, che si leggono anche con grande piacere), altri invece inclinano verso aspetti più manieristici della Anti-Heimatliteratur, a mio avviso non liberando lo sguardo da ovvietà che ne appiattiscono l’aspirazione critica (“A Bolzano tutto ha due nomi, a volte anche tre: uno in tedesco, uno in italiano e a volte, quando si deve, se proprio si deve, anche in ladino. Questo è un problema perché le parole hanno un potere metamorfico sulle cose. Non puoi pensare che una strada a Firenze sia la stessa cosa di una strada a Bolzano che non è solo una strada, ma anche una Straße”). Quello sguardo avrebbe potuto forse essere reso più acuto e incisivo mediante una maggiore profondità riflessiva sul tema del linguaggio in generale, sulla sua capacità contraddittoria – e quindi produttiva – di rivelare e nascondere un mondo della vita fatto di molteplici sfumature, non solo avvitandosi e annegando nella contrapposizione neurotica, in bianco e nero, tra “parole sporche” e “parole pulite”. Certo, a questa obiezione si potrebbe ribattere che, in fin dei conti, questi sono solo pensieri di un personaggio fittizio, psicotico, e che il punto di vista dell’autrice non coincide minimamente col suo. Ma il problema è proprio questo: in nessun punto del testo si percepisce un controcanto, un approccio ai nervi linguistici scoperti che faccia trapelare una prospettiva diversa, una possibilità ulteriore. Chi firma questa recensione c’ha sperato fino all’ultima pagina. Concludiamo comunque con una nota positiva: Lingua Madre uscirà presto in versione tedesca, per Folio Verlag. Chissà che, una volta tradotto nella lingua in cui a tratti pare essere stato addirittura pensato, il testo non recuperi le prospettive che la madrelingua non è riuscita compiutamente a dischiudere.

Gabriele Di Luca

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Immagine di apertura tratta da “Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders

 

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