Marcello Chiarenza "il pescatore di stelle"

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#iteatranti6: lo scenografo

Da uno spettacolo con Paolo Fresu a un altro, da una produzione del passato a una in corso d’opera, da “Tempo di Chet” a “Tango Macondo”. È l’ottobre del 2021 e il Teatro Stabile di Bolzano ha deciso di produrre un altro spettacolo con il trombettista, un viaggio, non solo musicale, dalla Sardegna all’America Latina che debutterà il 28 ottobre al Comunale di Bolzano con la regia di Giorgio Gallione.

Il viaggio a ritroso de “I teatranti” nella creazione di uno spettacolo può quindi cambiare “senso di marcia” e guardare avanti. Dopo aver sentito il direttore del Tsb Walter Zambaldi e il regista e autore di “Tempo di Chet”, Leo Muscato, incontriamo lo scenografo di “Tango Macondo”: Marcello Chiarenza.

Marcello Chiarenza, più coreografo che scenografo

Chiarenza è nato in Sicilia e si è laureato in architettura al Politecnico di Milano. Non si considera uno scenografo e lo premette subito: “Lavoro rarissimamente con i registi teatrali, di solito sono il regista dei miei spettacoli, ma da vent’anni collaboro con Giorgio Gallione che mi conosce e con cui ci capiamo benissimo”.

Chiarenza sta letteralmente costruendo le scenografie dello spettacolo in un magazzino del Teatro Stabile insieme a Lorenza Gioberti, la sua assistente e uno dei “macchinisti” dello Stabile: Emanuele Cavazzana. Chiarenza interrompe la costruzione di una ruota di rami per rispondere alle domande e incomincia a raccontarsi già mentre ci incamminiamo verso il bar più vicino.


“Mi considero un coreografo più che uno scenografo perché le mie scenografie sono dinamiche, non sono lo sfondo di uno spettacolo e credo che sia proprio questo che piace a Gallione. Le scenografie teatrali le ho create solo per lui con cui mi intendo facilmente, ma sono un drammaturgo della festa. Sono abituato a lavorare e a confrontarmi con comunità numerose e ho creato spettacoli in moltissime città, non solo italiane, con allestimenti nei parchi naturali, in riva ai fiumi e ai laghi o al mare, in montagna, nei centri storici, nelle piazze, nei castelli e nelle chiese. Un percorso che è stato formativo, lavorare in questi contesti mi ha insegnato a utilizzare le cose più economiche e più vistose possibili. Di conseguenza, col passare degli anni, la scenografia è diventata una scrittura drammaturgica che viaggia in parallelo alla scrittura delle parole”.

Un lavoro lungo decenni che l’ha messo in condizioni di mettere a punto un numero enorme di invenzioni che Chiarenza produce in proprio e dal nulla. “Sono oggetti legati alle stagioni e alle festività e ho ormai un repertorio vastissimo da cui Gallione può pescare quel che più gli aggrada, ovviamente durante la produzione degli spettacoli nascono sempre nuove invenzioni”.

Tango Macondo

Ma se ci troviamo al tavolino di un bar della periferia di Bolzano è soprattutto per capire la “gestazione” di “Tango Macondo”. Chiarenza la racconta così: “Gallione mi ha contattato per parlarmi di uno spettacolo con musiche di Paolo Fresu che avrebbe raccontato un viaggio dalla Sardegna al Sud America. Accertata la mia disponibilità, mi ha inviato un canovaccio su cui ho preso una serie di appunti. Poi ci siamo incontrati ed è iniziata la nostra collaborazione, un dialogo che continua ancora oggi. Come si sarà capito, io non amo le scenografie ridondanti sul testo, le immagini non devono ripetere quello che dicono le parole, preferisco che si instauri un rapporto evocativo. Come ho già detto, nel mio caso la scenografia è anche scrittura perché credo che la scrittura teatrale debba essere sinfonica. Dico anche perché per me è anche danza, quindi coreografia, e, a volte, costume, abito di scena”.

Il regista ha quindi selezionato una serie di oggetti di scena dal vastissimo repertorio di Chiarenza che una volta tornati in magazzino, ce li ha mostrati uno via l’altro: mosche, uccellini, farfalle, pentole, ombrelli, candele…
Oggetti evocativi più che cercano di cogliere l’anima, più che la forma: ronzii, movimenti e rumori in grado di evocare animali e/o eventi atmosferici anche nel buio di una sala teatrale. Dita che picchiando sul fondo di una pentola per evocare la pioggia, ombrelli rovesciati che lanciano nell’aria piumini bianchi ad evocare la neve, piccoli oggetti in legno e fil di ferro che mossi nell’aria emettono il ronzio di mosche, mosconi o zanzare.

Gli oggetti sono innumerevoli, ma uno su tutti sembra rappresentare al meglio il lavoro di Chiarenza: “In uno spettacolo sulla creazione del mondo volevo evocare un’acqua celeste, la nascita del cielo dalle acque profonde e ho avuto una sorta di visione: una rete che saliva dalle acque al cielo gocciolando luce, una pesca delle stelle. Ho quindi spaccato a martellate uno specchio e i frammenti li ho messi all’interno di una rete, una volta illuminati hanno prodotto una gibigiana meravigliosa“.

La gibigiana: “Balenìo di luce riflesso su una superficie da uno specchio, da un vetro, da un liquido”. Il teatro è anche questo, forse è soprattutto questo: creare, evocare, rappresentare, balenare, il resto deve mettercelo chi guarda.

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di Massimiliano Boschi

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