An Ordinary Country: lo sguardo delle spie nella Polonia comunista in un doc al Trieste Film Festival

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Quarto e ultimo appuntamento con le recensioni dal 32esimo Trieste Film Festival, online dal 21 al 30 gennaio 2021. Qui il primo film recensito: Berliner (The Campaign) di Marian Crișan. Qui il secondo: Otac (Father) di Srdan Golubović. Qui il terzo: Please Hold the Line di Pavel Cuzuioc. Buona lettura e buona visione.

Repubblica popolare di Polonia, tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta: il Servizio di sicurezza del Ministero per gli affari interni – Służba Bezpieczeństwa –, istituito nel 1956, è il grande occhio e il grande orecchio dello Stato comunista. Produce chilometri e chilometri di nastri: filmati e registrazioni audio che sorvegliano ogni palmo della vita pubblica e privata dei cittadini. La parte di questo materiale d’archivio che si è salvata dalla distruzione avvenuta durante la transizione post ’89, divenuta di dominio pubblico, è alla base del documentario Zwyczajny kraj (Un paese qualunque, titolo inglese An Ordinary Country, Polonia, 2020, 51′) di Tomasz Wolski, presentato in anteprima italiana al 32esimo Trieste Film Festival nella sezione Fuori dagli sche(r)mi (disponibile a questo link fino a domenica 31 gennaio).

Il film, di grande valore documentativo ed estetico, è coprodotto dalla televisione di stato polacca TVP e ha vinto al festival Visions du Réel di Nyon il Premio della giuria Clinique de Genolier per il documentario più innovativo. È interamente frutto del montaggio di found footage, materiale d’archivio audio e video che all’origine era stato prodotto per rimanere segreto, visibile solo ai funzionari della pervasiva rete di spionaggio deputata a tarpare le ali a mercato nero e sussulti di dissenso. Le vite degli altri, ma senza fiction. L’abile accostamento dei materiali dona al film una fluidità che trasforma i tanti episodi che hanno per protagonisti persone comuni in un affresco unitario. L’accurato lavoro sull’audio fonde gli interrogatori e le intercettazioni d’epoca con composizioni originali di musica elettronica, rarefatte e punteggiate di glitch che si mimetizzano alla perfezione con i suoni sporchi dei nastri.

La Polonia che ne emerge è un ordinary country come le storie che scorrono sullo schermo. Ascoltiamo i suoni di un incontro clandestino tra amanti. Vediamo un funzionario interrogare una donna su quanti panetti di burro o di margarina acquisti alla settimana. Sentiamo un anziano chiedere alla persona all’altro capo del telefono se gli si può portare dall’estero un farmaco contro le emorroidi. Una sequenza di inseguimento tra Trabant nel traffico di Varsavia ricorda i poliziotteschi che negli stessi anni si giravano a Milano o Roma. Un uomo disperato è ricattato da due spie che gli promettono il silenzio su una storia extraconiugale se accetterà di diventare un confidente in funzione anti-Solidarność.

An Ordinary Country al Trieste Film Festival

All’uscita da una messa si assiepa una folla e scoppia una rissa. Una donna telefona per lamentarsi dell’assembramento potenzialmente sedizioso: «Credo che questo vada sradicato. Con calma e serenità. Altrimenti la situazione peggiorerà». Al telefono si mercanteggia per piccoli lussi, come un cane di razza. Si assiste alla perquisizione di tre spie in una stanza d’albergo, poi alla documentazione di un bordello illegale. Un funzionario indugia con la cinepresa sulle pagine di un numero di Penthouse. «Vedo che ti piace, eh? Le stai persino filmando», lo stuzzica una collega fuori campo. Del campionario caro all’estetica dello spionaggio non manca nulla: cuffie, registratori a bobina, microfilm, faldoni, macchine da scrivere, lampade, scrivanie, le tende bianche mosse dal vento di una finestra aperta del palazzo dei servizi segreti, vista dalla strada.

Oltre all’importanza di queste testimonianze dirette per documentare il clima di paura che viveva la popolazione, c’è un altro livello su cui il film lavora sullo spettatore. Ha a che vedere con lo statuto delle immagini, realizzate paradossalmente per non essere mostrate se non a un “pubblico” selezionatissimo. L’operazione di disvelamento di questi materiali inediti ha qualcosa di magnetico e lascia letteralmente incollati allo schermo. Un po’ per la fascinazione un po’ feticistica che può colpire lo spettatore occidentale per la vita al di là della cortina di ferro, una sorta di effetto ostalgie proiettato su uno spazio e un tempo che non si sono mai abitati e dotati per ciò di una forza d’attrazione irresistibile. E poi perché queste sequenze in un livido bianco e nero mostrano la vita nel blocco sovietico da un punto di vista diverso dalle contrapposte propagande a cui siamo stati abituati. L’occhio paranoico delle spie dà forma a un’estetica originale: si fissa sulla porta di un palazzo da cui esce un uomo senza un braccio, osserva il traffico di una strada da un tetto, entra nei bar dove si fuma e si beve in una straniante tranquillità, registra un funerale con lo sguardo sgranato di una telecamera nascosta confusa tra la folla, si fa improvvisamente mosso quando illumina con i fari puntati i volti delle persone tratte in arresto nel corso una retata notturna.

Giulio Todescan

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