Filosofare è imparare a morire? #Alabanda6

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Byung-Chul Han, La società senza dolore, Einaudi 2021, Pagine 81, Euro 13.00

Viviamo tempi incerti, tempi in cui anche le tradizionali forme di sicurezza, espresse dalla ricerca scientifica, sono messe in questione da opinioni manipolabili. Per fare fronte a questa situazione può essere allora interessante osservare come il sapere filosofico (un sapere che ama indugiare nel domandare, più che affrettarsi verso facili risposte o ricette) accoglie il nostro sconcerto, intercetta i nostri timori. Un sapere interrogativo e libero, più che assertivo (o asservito…), grazie al quale sia in un certo senso ancora possibile non perdere la speranza di trovare in itinere intuizioni all’altezza della complessità che stiamo (dolorosamente, seppur imbottiti di anestetici) attraversando.

Il filosofo tedesco-coreano Byung-Chul Han ha pubblicato lo scorso anno un breve testo intitolato Palliativgesellschaft Schmerz heute, tradotto adesso in italiano da Einaudi. Articolate in 12 agili capitoletti, a loro volta scanditi da una prosa incisiva e paratattica, le riflessioni di Han prendono l’avvio da una denuncia: “Oggi imperversa ovunque una algofobia, una paura generalizzata del dolore. Anche la soglia del dolore crolla con rapidità. L’algofobia ha come conseguenza un’anestesia permanente. Si evita qualsiasi circostanza dolorosa. Persino le pene d’amore sono diventate sospette”. La cartina di tornasole per verificare questo stato di cose è data dall’osservazione della reazione – su scala planetaria – della Pandemia, la quale sarebbe così orientata da un progetto di complessivo allontanamento del (e dal) dolore. Un allontanamento talmente radicale da confondere il trattamento analgesico con quello devitalizzante: “Il virus è lo specchio della nostra società. Evidenzia in quale società viviamo. Oggi la sopravvivenza assume un valore assoluto, come se fossimo costantemente in guerra”. Ma se “tutte le energie vitali vengono adoperate per allungare la vita”, ecco che “la società palliativa si rivela una società della sopravvivenza” e in questo senso, mentre si crede di allontanare il dolore e la morte, ci avvolgiamo in una spirale immunitaria totalizzante e totalitaria. Alla fine, dunque, non è più il dolore o la morte, ma è la vita stessa ad essere esorcizzata, riducendosi ad un processo biologico da ottimizzare mediante un continuo accertamento ipocondriaco e digitale che annienterebbe l’esistenza.

Lo stile di pensiero adottato da Han non sembra qui distante da quello di un altro filosofo che ha molto riflettuto sul cambiamento epocale introdotto dal virus alla luce di quei dispositivi “bio-politici” in grado, a suo dire, d’informare la nuova configurazione del potere al quale ci stiamo tutti volontariamente sottomettendo. Parliamo ovviamente di Giorgio Agamben, il quale proprio a partire da una radicale critica dello stato di (normalizzata) eccezione vigente ha chiesto: “Che cosa diventano i rapporti umani in un paese [ma si potrebbe tranquillamente dire in un mondo, ndr] che si abitua a vivere in questo modo non si sa per quanto tempo? E che cosa è una società che non ha altro valore che la sopravvivenza?” (A che punto siamo? L’epidemia come politica, Quodlibet 2020). Consonante, per tornare ad Han, è quindi il timore suggerito da una visione tecnocratica, distopica e anti-umana in via di attuazione: “La vita che perseguita e scaccia la propria negatività elimina sé stessa. La morte e il dolore sono fatti l’uno per l’altra. Nel dolore, la morte viene anticipata. Chi vuole sconfiggere ogni dolore dovrà anche abolire la morte. Ma una vita senza morte né dolore non è umana, sebbene non morta. L’essere umano si fa fuori per sopravvivere. Potrà forse raggiungere l’immortalità, ma al prezzo della vita”.

Al netto della plausibilità di tutte queste analisi (avvento e indefinito perfezionamento di una società dominata dal controllo bio-politico, cioè interamete medicalizzata, quindi in perenne fuga dal dolore, e conseguente estinzione dell’uomo così come noi lo conosciamo) resta un dubbio: possibile che tale tendenza ottundente venga messa fuori campo solo dal risveglio di un pensiero tanatologico (se non addirittura da una scivolosa e caricaturale tanatofilia) che fa il verso al Socrate ciceroniano ripreso da Montaigne (philosopher, c’est apprendre à mourir)? Lo stesso Montaigne, ricordiamolo, oscillava tra un atteggiamento di costante premeditazione della fine (bout) della vita – perché la premeditazione della morte è premeditazione della libertà – e il suo allentamento rispetto allo scopo (but) della nostra esistenza: la vita deve guardare alla vita, la morte verrà da sé. Comunque, un conto è morire in seguito a dolori insopportabili, in un letto d’ospedale (magari con l’intero sistema sanitario al collasso), un altro essere sorpresi dall’attimo fatale mentre stiamo piantando un cavolo in un orto fiorito.

 

Gabriele Di Luca

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Immagine di apertura: “La morte di Socrate” di Jacques-Louis David (da Wikipedia)

 

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