Legare non è un'arte, è violenza

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Come tutti sanno la parola “arte” nasconde al suo fondo un’ambiguità. Possiamo definire infatti artistico un atto condotto con particolare abilità per produrre un oggetto rivolto alla fruizione eminentemente estetica, oppure riferirci alla maestria di un gesto che persegue finalità di tipo più vario. Esiste, per esempio, anche un’arte della guerra, della quale un antico trattato cinese (scritto nel quinto secolo avanti Cristo da Sun Tzu) è prodigo di edificanti consigli: “La vera vittoria è la vittoria sull’aggressione, una vittoria che rispetti l’umanità del nemico rendendo così inutile un inutile conflitto”.

Anche il libro del tardo esordiente letterario Paolo Milone ha un titolo che gioca con questo tipo d’ambiguità, tanto che le sue pagine si possono leggere in due modi completamente diversi. Il primo, limitato al godimento della lingua e della forma, ce lo fa apprezzare per la prosa talvolta percorsa da fremiti lirici, con risultati anche molto efficaci (penso a tutte le volte che l’io narrante – che poi è lo stesso Milone, di professione psichiatra – si diffonde a parlare della sua città, Genova, o del mare: “Il mare tutte le raccoglie le lacrime del mondo”); il secondo, quando cioè l’autore si concentra maggiormente su come viene praticata la sua “arte medica”, ci fa invece storcere alquanto la bocca, perché qui L’arte di legare si trasforma in un’arringa a favore della contenzione fisica, favorendo il ricorso a cinghie, fasce o nastri per immobilizzare una persona al letto (una citazione fra le tante: “Dopo tanti anni di esperienza posso dire che l’unico vero problema del legare al letto è il saperlo fare bene. Se non si sa far bene, è meglio evitare”).

A questo punto occorre decidersi e stabilire se la contraddizione appena espressa giochi a favore del libro (da prendere quindi, nel primo senso della parola, come una mera opera artistica), oppure, stabilito che quando si parla di legare non abbiamo a che fare con metafore poetiche, i problemi sollevati non possano certo ridursi alla capacità d’imbrigliare meglio o peggio un essere umano sofferente di disturbi mentali (anche gravi), e quindi il trovarsi davanti ad una trasfigurazione estetica di un gesto così violento corrisponda ad un trucco per rendere più sopportabile (o persino appetibile) un’impostazione da rigettare completamente, ravvedendo in essa un attacco alle conquiste, come si vede ben fragili, di una psichiatria conscia del suo terribile potere istituzionalizzante.

Se l’argomento fosse un altro (meno gravido di conseguenze anche fatali sulla pelle di chi patisce le pratiche contenitive) si potrebbe concludere salomonicamente così: ognuno legga il libro e poi tragga da solo le proprie conclusioni. Se l’argomento fosse un altro, appunto. Ma visto che l’argomento è esattamente uno di quelli che non tollerano troppe sfumature, è bene sciogliere tutti i lacci presenti, anche quelli inerenti il giudizio estetico. Asserire, come fa Milone, che “l’idea che si possa non contenere mai è la pretesa che la ragione e il cuore possano pretendere di placare tutto” e che “questa pretesa non fa che aumentare la rabbia del paziente” è una dichiarazione di resa, che risospinge la psichiatria in quella zona buia della quale (e oltre la quale) la legge 180 del 1978 (la cosiddetta “legge Basaglia”) ha cercato di segnalare i contorni di violenza de-soggettivizzante.
Ha scritto Giovanna Del Giudice in un volume dedicato proprio alla decostruzione della pratica contenitiva (“E tu slegalo subito: sulla contenzione in psichiatria”, Edizioni alphabeta Verlag): “Una persona legata ha come unica possibile identità residua la sottomissione, il riconoscimento della forza dell’altro, l’ineluttabilità della sua inferiorità e infine la sua inconsistenza. Quando una persona è legata, il processo di ‘cosificazione’ del malato contamina l’operatore, oggettivandolo, negandogli forza, capacità di relazione, di confronto. Egli non è più in grado di comprendere i gesti e le infinite parole che traducono la sofferenza. La persona legata è la prima testimone della sconfitta del medico”.

Di tale sconfitta, del senso stesso di questa resa non si avverte purtroppo alcuna traccia ne L’Arte di legare. Al contrario, dopo aver edulcorato il profilo delle pratiche contenitive (in un passaggio si arriva persino a ritenere che nella contenzione si riverberi e balugini la “sacralità” di un abbraccio primigeneo, materno…), l’autore conclude svalutando tout court il ricorso alla parola, quindi tende a escludere la strategia del dialogo, definendola “impotente”: “La parola non è luce che scaccia i fantasmi della notte, non è legna da conservare per il freddo inverno, non è cibo da tenere in dispensa, non è ninnananna che rincuora. La parola è paglia”. Strano effetto collaterale per un’opera che, apparentemente, punta così tanto sulla capacità virtuosa e virtuosistica delle parole di suscitare immagini, sentimenti, mozioni anche empatiche (Milone comincia quasi sempre ogni frammento del suo scritto indirizzandosi a diversi interlocutori, fingendo di accoglierne il punto di vista), ma che in buona sostanza – e al momento meno opportuno, quando cioè dovrebbe dare migliore prova di sé – torna ad ammutolire, riducendo la “follia” in uno spazio privo di significazione, al balbettìo che consente al monologo della “ragione”, e soprattutto ai suoi mezzi coercitivi, d’imporsi in modo totalizzante.

Paolo Milone, L’arte di legare le persone, Einaudi 2021, pagine 193, euro 18.50.

 

Gabriele Di Luca

Immagine di apertura: Agnus Dei, dipinto di Francisco de Zurbaran, Prado Museum (via wikipedia)

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