Il caso Marta Russo e la giustizia in polvere

 

Difficile dimenticare l’omicidio della studentessa di 22 anni Marta Russo, uccisa da un proiettile la mattina del 9 maggio 1997, a Roma, mentre camminava in compagnia di un’amica nella cittadella universitaria, tra la Facoltà di statistica e l’Istituto di Filosofia del diritto.

Chi sparò a Marta Russo? Da dove? E soprattutto, perché lo fece? Nel 2003 l’iter giudiziario pervenne in Cassazione a questa conclusione: due degli indagati principali, gli assistenti universitari Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro – nonostante si siano sempre dichiarati completamente estranei ai fatti – furono condannati rispettivamente a cinque anni e quattro mesi e a quattro anni e due mesi per omicidio colposo aggravato; un terzo (l’usciere della Sapienza Francesco Liparota, anch’egli accusato di aver preso parte all’omicidio) venne invece assolto.
Questa, dunque, la “verità processuale”. Ma la verità processuale può assorbire o esaurisce in sé quella storica e fattuale? Nella nostra civiltà giuridica il colpevole deve (o per meglio dire: dovrebbe) essere riconosciuto tale solo in presenza di prove evidenti, e dunque – se queste mancano o continuano a non arginare ogni “ragionevole dubbio” – la distanza tra la verità processuale e quella storica o fattuale non potrà mai essere ridotta. E qui la domanda (quella che le due autrici pongono in modo accorato) diventa: “Che cosa dovrebbe fare la legge davanti all’incertezza? O meglio, cosa dovrebbe fare una Corte davanti a dati che non possono essere certi o sono addirittura contraddittori?”.

La lucidissima inchiesta di Chiara Lalli e Cecilia Sala individua già nel titolo il principale e colossale dubbio che colloca tutto ciò che in seguito ha determinato la colpevolezza di Scattone e Ferraro in una costellazione di terrificante incertezza. Per usare le parole di Carlo Torre, il perito nominato dalla Corte: “Sul campione [ipoteticamente di polvere da sparo, ndr] relativo alla finestra munita di condizionatore della nota aula 6 [cioè dal punto di fuoco ipotizzato dall’accusa] non sono state rinvenute particelle univoche dello sparo [corsivo nostro], bensì soltanto due particelle classificabili al più come compatibili. Analoghe particelle risultano distribuite sugli edifici circostanti il luogo del teatro del fatto”. E ancora: “Di fronte a prelievi tutti negativi e omogenei, non disponiamo ovviamente di alcun elemento che ci possa suggerire da dove il colpo possa essere stato esploso”. Insomma: non solo non vi è alcuna certezza che le tracce di polvere rinvenute sul davanzale della finestra dalla quale l’accusa suppone sia partito lo sparo mortale corrispondano effettivamente al proiettile che ha ucciso Marta Russo, ma non è neppure sicuro che quella polvere sia uscita effettivamente da un’arma, visto che, come si legge altrove, “potrebbe anche provenire dalle pastiglie dei freni di una vettura”! Ma allora perché ci si è fossilizzati proprio su quella prova (che in realtà non prova nulla), e come si è perfezionata nel corso del processo l’accusa?

Se scartiamo l’attendibilità della prova costituita dalla polvere presente sulla finestra dalla quale sarebbe provenuto il colpo, l’unica cosa che resta sono (o sarebbero) le testimonianze di coloro i quali si trovavano presenti quella mattina a quell’ora nell’aula e che, quindi, avrebbero potuto certificare ciò che è avvenuto. Peccato però che, anche in questo caso, tali testimonianze non solo non riescano a illuminare quanto già non è riuscito a spiegare il ritrovamento della famosa polvere, ma facciano anzi sprofondare tutta la vicenda in un vero e proprio baratro di dichiarazioni antitetiche e di impossibile verifica (tanto che nessuno ancora sa chi ci fosse “davvero” in quella stanza). Si prenda per esempio la figura della seconda testimone chiave, la segretaria dell’Istituto di Filosofia del diritto Gabriella Alletto, la quale prima afferma, anzi giura sui suoi figli, di non essere mai entrata lì dentro, e poi arriva a confermare tutto quello che una assai solerte azione di convincimento da parte degli inquirenti l’avrebbe spinta a dire. Altra domanda non da poco, quindi: Alletto è una donna impaurita, incapace di reggere un interrogatorio prolungato per giorni, oppure una teste serena e attendibile?

Una delle parti più interessanti del libro è quella dedicata al ruolo svolto dalla memoria, che prende spunto da un’altra testimonianza rilevante, vale a dire quella di Giuliana Olzai, la studentessa fuori corso che, la mattina dell’omicidio, assicura di aver visto Scattone e Ferraro fuggire velocemente da un punto situato poco lontano dal luogo del delitto. Bene, ma quando si colloca temporalmente la deposizione di Olzai? Ben due mesi dopo l’uccisione di Marta Russo e tre settimane dopo che Scattone e Ferraro, intanto, sono già stati arrestati e quindi resi mediaticamente disponibili a tutti gli esercizi di una memoria suscettibile di essere modellata e rimodellata a piacere. Come confermano anche numerosi esperimenti, la memoria è utilissima se serve a trovare una prova, un riscontro inconfutabile (mi ricordo di aver visto all’angolo della strada un cartello stradale e, se poi mi reco ancora in quel luogo, lo ritrovo almeno vicino al punto in cui ricordavo di averlo visto) ma non se viene adoperata in un contesto in cui non possono essere fornite ulteriori prove a sostegno. Scrivono sensatamente a questo proposito le due autrici: “Una condanna non dovrebbe fondarsi soltanto sulle testimonianze, anche quando sono coerenti internamente, anche quando c’è una sola versione, proprio perché non sono mai la fotografia di una scena ma, appunto, una sua rielaborazione”.

Per concludere, la triste storia di Marta Russo, così come viene ricostruita da questo libro prezioso, c’insegna almeno due cose terribili. La prima: chiunque può venire ucciso così, senza un apparente motivo, e senza che si riesca a stabilire con certezza la dinamica della sua morte. La seconda, ancora più angosciante: chiunque può essere accusato di aver commesso un omicidio, e la mancanza di prove, persino l’assenza di motivazioni in grado di offrire una spiegazione plausibile (nel nostro caso Scattone e Ferraro furono ritenuti persino colpevoli di aver agito proprio per dimostrare che, agendo senza movente apparente, nessuno avrebbe potuto risalire a loro, in un’assurda caricatura del cosiddetto “delitto perfetto”), anziché inibire la condanna, finisce col soddisfare soltanto una generica voglia di giustizia sommaria e, quel che davvero è peggio – come affermò allora il giornalista Giuseppe D’Avanzo –, distrugge la possibilità di dare un volto ai veri responsabili.

Gabriele Di Luca

Chiara Lalli – Cecilia Sala, Polvere – Il caso Marta Russo, Mondadori 2021, pagine 166, Euro 18 

 

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