Abitare significa amare

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C’è una frase, attribuita a Georges Perec, che potrebbe servire a introdurre la lettura del nuovo libro del filosofo Emanuele Coccia, assai stimolante fenomenologia dell’abitare anche in chiave post-lockdown. “Vivre – così Perec –, c’est passer d’un espace à un autre en essayant le plus possible de ne pas se cogner” (vivere è spostarsi da uno spazio all’altro cercando il più possibile di non scontrarsi). Credo che l’autore non sarebbe d’accordo, e magari altererebbe volentieri la citazione: Vivre, c’est se déplacer d’un espace à l’autre en essayant autant que possible de mélanger (vivere è spostarsi da uno spazio all’altro cercando, per quanto è possibile, di mescolarsi). Non si dà vita senza mescolanza, insomma, e per osservare come questa si produca non occorre neppure allontanarsi troppo, giacché – al contrario – è proprio la “casa” a rendere possibile un’acquisizione del genere e, soprattutto, a consentire di scriverne: «Abbiamo bisogno di casa per la stessa ragione per cui abbiamo bisogno di scrittura. L’esperienza ordinaria non basta mai: non basta percepire il mondo così come è, non basta aderirvi incastrando la nostra silhouette alla sua superficie. Dobbiamo creare a partire dalla sua e dalla nostra realtà una visione, una mescolanza di colori, di suoni, odori, emozioni. Allo stesso modo, non possiamo abitare il mondo nella sua purezza cercando il posto che occupi il minor spazio. Abitare il mondo significa trasformare la sua struttura, diventare noi stessi la scrittura del pianeta» (pag. 75).

Per avvistare il fenomeno della casa sviluppandone tutte le possibili rifrazioni concettuali, alle quali questa filosofia della mescolanza mette capo, Coccia propone all’inizio di mutare la topologia consueta che ci ha sempre portato a considerare il luogo del pensiero come destinato a comprendersi esclusivamente nello spazio urbano (quindi subito usciti da casa, quando ci chiudiamo la porta alle spalle per sciamare nelle strade, nelle piazze), ma ciò non al fine di rivendicare una dimensione privata, in contrapposizione alla vocazione pubblica e politica della filosofia, quanto piuttosto proprio per tornare ad allargare la visuale dopo aver scoperto che è solo in virtù della prossimità delle cose (di tutte le cose) che potremmo esperire più compiutamente il mondo nei suoi processi relazionali e trasformativi: «La modernità filosofica ha puntato tutto sulla città: il futuro del globo però non potrà che essere domestico. Abbiamo bisogno di pensare la casa: viviamo nell’urgenza di fare di questo pianeta una vera e propria dimora, o meglio di fare della nostra abitazione un vero pianeta, uno spazio capace di accogliere tutte e tutti. Al progetto moderno di globalizzare la città si è sostituito quello di aprire i nostri appartamenti per farli coincidere con la terra» (pag. 11).

Sono in particolare due i capitoli che riescono, a mio avviso, a porre in piena luce il proposito di questo brillante e denso saggio narrativo. Il primo è dedicato alla nozione di “gemellanza”, di “gemellanza cosmica” vorrei quasi dire, autobiograficamente dedotta dall’esperienza di vertiginoso sdoppiamento che l’autore compie davanti a una fotografia che lo ritrae, in precocissima età, insieme a suo fratello, sul crinale di una somiglianza al limite dell’indecidibile, giacché qui il confine tra il sé e l’altro è quanto mai poroso e labile: «La cosa più spaventosa e inebriante è la consapevolezza che la vita che è dentro di me, nel più intimo del mio essere – il cuore, il cervello, il Dna –, quella vita che non ha mai smesso di generarmi è esattamente la stessa di qualcun altro. La contemplazione di questa stessa vita che è al contempo e con uguale diritto altrove e in me, che può vivere in me e fuori di me, è stata l’esperienza originale della casa. Il mio corpo e quello di mio fratello esprimono esattamente la stessa vita, una vita indeterminata, proteiforme e onnivora, capace di andare altrove, di diventare qualsiasi cosa, di trasformarsi in qualsiasi cosa» (pag. 66). L’altro capitolo, decisivo al fine di focalizzare la vita di una soggettività orientata a riconoscersi in ogni cosa, è quello dedicato a uno degli ambienti che, in modo paradigmatico, rendono “casa” una casa, vale a dire la cucina. «La cucina – scrive Coccia – è assieme la realtà e il simbolo della nostra relazione con il mondo. Possiamo essere e diventare mondo solo trasformandolo radicalmente e lasciandoci trasformare da esso. Possiamo essere e diventare mondo solo costruendo ogni volta quello che la magia rinascimentale avrebbe chiamato “sigillo”: una formula che rende possibile e simbolizza una congiunzione e la trasformazione di una serie di elementi disparati» (pag. 113).

Congedando la recensione del volume mi accorgo di aver sorvolato su un termine del sottotitolo che, invece, andrebbe adeguatamente sottolineato. La nuova considerazione attribuita allo spazio domestico, di carattere morale, si congiunge infatti strettamente a un modello di “felicità inter-soggettiva” o finanche “post-soggettiva”, rivelando come, ancora una volta, un autentico progetto di realizzazione esistenziale non sia riducibile a una mera precettistica sentimentale, “a una forma di igiene psichica”, ma sfoci necessariamente in «un ordine materiale che coinvolge oggetti e persone, una economia che intreccia le cose e gli affetti, sé stessi e gli altri nell’unità spaziale minima di ciò che chiamiamo “cura”, nel senso più ampio». È precisamente questo aver cura – che recupera il significato antico del termine stoico oikeiosis, al contempo “appropriazione”, “assuefazione” e “addomesticamento” – che introduce poi l’esperienza misteriosa dell’amore e il desiderio di “metter su casa” con qualcuno o, forse, persino con tutti, se avremo la ventura di immaginarci case grandi come il mondo e il mondo alla stregua di una grande casa. Perché le case «non sono che il programma materiale, l’ossatura, ma anche l’atmosfera oggettiva, il clima di una vita condivisa – tempo, umori, cibo, sonno e sogni che ci rendono inseparabili da qualcun’altra o qualcun altro. Impossibile – nota Coccia saldando la premessa alla conclusione del suo ragionamento – pensare e costruire case senza pensare a costruire un amore».

Emanuele Coccia, Filosofia della casa. Lo spazio domestico e la felicità, Einaudi 2021, pagine 144, Euro 15.

Gabriele Di Luca

 

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Nell’immagine di apertura: Murales di Egeon (Ricorda la Bellezza/ Gedenke des Schönen) in via Roen a Bolzano

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