Cosa vorremmo a Genova 2022

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Genova 2001: il premier Silvio Berlusconi – tramite solerte ordinanza del sindaco Giuseppe Pericu – vieta di stendere i panni ad asciugare alle finestre, per non fare brutta figura durante il vertice del G8. Matera 2021: Nicola Frangione, un mite e corpulento professore in pensione, si affaccia a petto nudo dal balcone di casa, proprio mentre sotto passa il corteo dei delegati del G20 dei ministri degli esteri e dello sviluppo, viene fotografato e diventa virale sui social, inconsapevole metafora di un popolo che si vendica sui potenti ostentando in faccia a loro una sovrana indifferenza.

Due flash, due fatti piuttosto marginali che forse, come due “glitch in the Matrix” – per restare in sintonia con l’immaginario a cavallo del millennio –, se accostati rivelano qualcosa. Ad esempio che la credibilità dei vertici internazionali, un tempo progettati come palcoscenici planetari da cui magnificare l’avanzata trionfale della globalizzazione liberista, si è sgonfiata a tal punto che basta un meme per rubare la scena ai primattori. Oppure che la pandemia ha fatto passare un po’ a tutti la voglia di assistere a parate, tantomeno di contestarle, e si è tornati a parlare di sanità, disuguaglianze, lavoro, ambiente.

Ciò non significa che, come si è talvolta letto in questi giorni, a Genova i movimenti siano morti insieme al povero Carlo Giuliani. Come ci ha detto Gianfranco Bettin, i movimenti «continuano ad esistere, sono anzi cresciuti e si sono radicati in terreni nuovi attorno a temi specifici (quindi sono diventati verticali) o a problematiche territoriali (quindi sono diventati locali)».

A maggio aprivamo questo speciale “A Nordest di Genova” parlando della “lezione” del G8. Da parte nostra, senza alcuna voglia di impartirne ad altri, abbiamo intervistato protagonisti di quell’evento come Vittorio Agnoletto, l’avvocato Dario Rossi, il giornalista Giacomo Papi, dato spazio a ricordi e fotografie di chi affollò i cortei, ricostruito gli eventi che prepararono il terreno alla “macelleria messicana” – da Napoli a Göteborg passando per le pagine dei giornali italiani.

Genova 2021 è stato per tanti un momento di elaborazione, condivisione (sui social ma per fortuna non solo) di ricordi, rilettura dei temi di allora con gli occhi di oggi. Forse anche il primo anniversario in cui “la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la Seconda guerra mondiale” (copyright Amnesty International) è diventata patrimonio comune di quasi tutto il mainstream politico e giornalistico, anche di chi in quei giorni era troppo distante o distratto per vedere e denunciare ciò che accadeva.

Ma la memoria non basta a metterci l’animo in pace: servono regole e garanzie per evitare che in futuro si ripetano altre mattanze alla genovese. Ad esempio introducendo un codice identificativo sulle divise delle forze dell’ordine, come già avviene in 21 paesi su 23 dell’Unione europea. Se ne discute da anni, le recenti immagini dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere ne hanno reso ancora una volta evidente l’utilità, Amnesty ha attivato una petizione online, eppure le resistenze sono ancora tante, a più livelli, come già accaduto con l’introduzione del reato di tortura, arrivata solo 16 anni dopo quel G8. A Genova 2022 vorremmo vedere quei numeri sulle divise. Una rivendicazione minimalista? Piuttosto, il minimo sindacale per iniziare a ricucire un rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni.

Giulio Todescan

Foto di Enrico Antonello

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