Roberto Calasso, serpente divino

FacebookTwitterLinkedInWhatsAppEmail

Ha scritto Johann Wofgang von Goethe: «Der ist der glücklichste Mensch, der das Ende seines Lebens mit dem Anfang in Verbindung setzen kann» [È l’uomo più felice colui il quale riesce a congiungere l’inizio e la fine della sua vita]. Indipendentemente da come si possa attingere la felicità, il significato della citazione concerne in modo preminente l’atto di congiunzione tra l’inizio e la fine dell’esistenza, il che rimanda a un cerchio perfettamente chiuso, alla maniera di una collana. E l’immagine potrebbe essere approfondita, considerando cioè ogni singola pietra o scaglia di questa collana già come l’unione delle sue estremità. Con Roberto Calasso (scomparso il 28 luglio scorso a Milano, all’età di 80 anni) è una figura del genere a salutarci.

Ma “congiungere”, portare a coincidere, vuol dire anche valutare il ricorrere di altre coincidenze rivelative. Calasso, dicevamo, è morto il 28 luglio del 2021.
Esattamente 56 anni prima (il 27 luglio del 1965) morì, anche lui a Milano, Roberto (Bobi) Bazlen. E proprio a Bazlen è dedicato l’ultimo libro di Calasso, uscito lo stesso giorno della dipartita dell’autore insieme a un altro piccolo volume autobiografico, “Memè Scianca”. Congiunzioni, coincidenze, che offrono lo spunto per considerarne subito un’altra, quella tra lo scrittore e l’editore, giacché qui l’editoria è intesa alla stregua di un genere letterario (si veda il testo di una conferenza tenuta a Mosca il 17 ottobre del 2001, poi pubblicata ne “L’impronta dell’editore”).
Il tutto, ovviamente, in modo programmatico: «Che cos’è una casa editrice se non un lungo serpente di pagine? Ciascun segmento di quel serpente è un libro. Ma se si considerasse quella serie di segmenti come un unico libro? Un libro che comprende in sé molti generi, molti stili, molte epoche, ma dove si continua a procedere con naturalezza, aspettando sempre un nuovo capitolo, che ogni volta è di un altro autore» (“L’impronta dell’editore”, pag. 94). Serpente di pagine e pagine che compongono l’unico libro potenzialmente infinito (un infinito libro fatto di “libri unici”), scritto da autori molteplici eppure sfumanti nello stesso meta-artefice, che produce e divora se stesso alla maniera dell’Uroboro di Nietzsche, simbolo dell’eterno ritorno dell’uguale.

I due libri postumi di Calasso (“Bobi” e “Memè Scianca”) sono le ultime tessere del mosaico, due brevi acquarelli che schizzano lo sfondo dal quale emerge l’intero orizzonte. Dal primo apprendiamo la pratica di un formidabile istinto letterario che Bazlen giocava contro le tendenze dominanti il mondo culturale del dopoguerra; le tendenze marxiste, cioè, che Adelphi contribuirà a indebolire: «Che cosa mi aspettavo di trovare in Bazlen? Esattamente quello che lui era, constatai. Fra l’altro, una sorta di uragano silenzioso che, anche per la sua totale assenza dalla scena, avesse il potere di piegare e appiattire quella geografia prestabilita che costituiva allora non solo la letteratura ma, in una concatenazione che sembrava inscalfibile, anche il cinema, la pittura, il teatro, la moda e il resto. I talenti non mancavano – anzi, a distanza di qualche decennio, fa quasi spavento pensare a quale profusione imponente, se si guarda alla pochezza di ciò che le fece seguito –, ma qualcosa mancava. E forse l’essenziale. Bazlen fu per me quell’essenziale» (“Bobi”, pag. 12). Dal secondo, oltre numerosi ricordi d’infanzia e le tracce di una chiara predestinazione («Leggere fu ciò che insensibilmente prese il posto dei giochi che facevo da solo», pag. 49), trapela l’ammirazione per un “gesto” che sarà ripetuto e affinato fino a raggiungere punte di notevole maestria (si pensi all’arte calassiana dei risvolti di copertina, alcuni dei quali collezionati in “Cento lettere a uno sconosciuto”, cinquecentesimo numero della Piccola Biblioteca Adelphi): «Camminavamo lungo l’Avisio, torrente dalle acque veloci e sempre chiare. Mio padre mi teneva per mano e a tratti parlava. Non si capiva a chi, perché eravamo soli. Oggi lo so. Ripeteva, riformulava, modificava o rinunciava a modificare parti di un suo libro, I glossatori e la teoria della sovranità, che apparve poi nella sua versione definitiva nel 1951. Doveva essere l’estate precedente e avevo nove anni. Ho cominciato a leggere veramente i libri di mio padre molti anni dopo la sua morte, ma certi loro tratti circolavano in me dai tempi di quelle passeggiate. Alcune espressioni, come negozio giuridico, si presentavano come massicci misteriosi ed elusivi. Altre, come glossatori, invece mi attraevano. Di loro non sapevo niente, salvo che commentavano qualcosa, con le loro glosse. E questa idea di uno scritto che nasce da un altro scritto, lo rielabora, gli aggiunge qualcosa che prima non c’era, mi sembrava qualcosa da seguire» (“Memè Scianca”, pag. 47).
C’è già l’inclinazione decisiva, l’impulso che porterà il glossatore a tentare negli anni successivi il grande affresco dell’Opera, vale a dire la serie di libri pubblicati da Calasso a partire da “La rovina di Kasch” (del 1983) fino a “La tavoletta dei Destini” (del 1920), corpo della sua idea di “letteratura assoluta”.

Certo, a questo punto il rischio è quello di comprimere o fraintendere troppe cose, facendoci sfuggire il nocciolo. Il serpente, talvolta, tende all’anguilla. Ma cosa c’è, potremmo chiedere, nell’impugnatura del ventaglio dai colori pastello di Adelphi – oltre allo snobismo liberale post-modernamente contaminato con accenti pop, al recupero della mitologia greca e della sapienza vedica, alla “musica del dimenticare” di Nietzsche fatta risuonare in una conchiglia (Scianca, il nomignolo dell’infanzia, richiama il sanscrito shankha, cioè conchiglia) dalla quale spunta la forma seducente di una ninfa –, qual è, insomma, il segreto di tutta quest’avventura che, dopo aver perduto da tempo chi l’aveva inaugurata (Bazlen), adesso perde anche chi l’ha portata alla piena maturazione (Calasso)? Ancora una coincidenza: a proposito dell’eredità dello scrittore-editore valgono le stesse domande che egli pronuncia in chiusura di “Bobi”: «Che cos’era, allora, Bazlen, rispetto al regno informatico? Un relitto? La testimonianza di un mondo passato, affascinante, ma da lasciare a pochi studiosi che lo avrebbero ricostruito, fra molte gaffes e imprecisioni, con l’impressione di aver compiuto un dovere culturale? Sarebbe diventato tutto ciò che Bazlen detestava» (pag. 94). Ecco, il nocciolo forse sta qui. Nel tentare di sottrarsi al dominio univoco dell’utilitaristico “digitale” (la forma più visibile dell’“innominabile attuale”) e ristabilire il pieno diritto di un pensiero strenuamente “altro”, ossia “analogico”, metaforico (insieme arcaico e futuribile), per il quale è nella letteratura che si apre la breccia che ci consente di accedere a dimensioni mentali ancora suscettibili di un’agnizione divina.

Roberto Calasso, Bobi, Adelphi 2021, pagine 97, Euro 12
Roberto Calasso, Memè Scianca, Adelphi 2021, pagine 96, Euro 12

 

Gabriele Di Luca

Le puntate precedenti 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12

UNA RUBRICA IN COLLABORAZIONE CON 

 

Ti potrebbe interessare